venerdì 15 marzo 2013

qui nei pressi... - 3 [Musica]

I genovesi Blue Beat - un tributo con stile


Formazione genovese attiva dal 2008, i Blue Beat sono un quartetto di giovani musicisti che, nonostante la quasi 'tenera' età dei suoi componenti (i tre chitarristi sono nati nel 1992, la cantante nel 1993), contano già una discreta produzione di cover, arrangiamenti originali e brani inediti oltre che numerose partecipazioni a eventi di rilievo nel genovese, fino a raggiungere il primo posto nel talent show tenutosi al teatro Politeama Genovese nel 2010.A tali esperienze come gruppo, si somma inoltre la preparazione musicale dei singoli componenti, fatta di studi approfonditi e duraturi, che non passa inosservata se si ascolta la produzione musicale dei Blue Beat.
Genovese come uno dei loro massimi ispiratori, Fabrizio De André, questa band risente pesantemente dell'influenza dello stile sobrio e quasi 'intimo' del noto cantautore, e non teme affatto l'idea di riproporre direttamente brani da lui composti, ma pur partendo chiaramente da questa base ben definita, anche nella composizione di brani propri, è capace di non arrestarsi all'interno dei canoni che tale stile richiede, aggiungendo con coraggio la propria impronta. Tutto ciò rende sicuramente i Blue Beat un'interessantissima realtà che – a ragione – cerca di affermarsi all'interno della scena italiana, e che possiede certamente le caratteristiche per farlo.
Tra gli elementi interessanti presentati dalla band, spicca senza dubbio la scelta di comporre brani che comprendono per la maggior parte chitarre – acustiche e elettrica – e voce; la sezione ritmica è sottolineata in alcuni brani, come 'Il Sogno di ieri' e 'Non ti conosco', da leggere percussioni, anche se il ruolo decisivo è sempre assegnato alla chitarra acustica, sia che si tratti di delineare la melodia principale, sia che essa debba invece mantenere 'vivo' il ritmo del brano. Sebbene possa sembrare a prima vista una costruzione dei brani un po' debole e poco incisiva, le parti di chitarra denotano con chiarezza la grande attenzione che viene riservata alla composizione delle tracce: arpeggi eseguiti perfettamente si accompagnano a delicati pezzi solisti della chitarra elettrica, che non sovrasta mai i suoni degli altri strumenti e della voce. E' proprio la voce l'altra grande protagonista della musica deiBlue Beat, utilizzata come vero e proprio strumento aggiuntivo: sia il cantato femminile che quello maschile sono sviluppati ed eseguiti con cura, e garantiscono un decisivo apporto all'insieme. La voce femminile, in particolare, è capace di fraseggi articolati e ben riusciti che colpiscono l'ascoltatore fin dal primo approccio con questa musica. 
(di Alice Bevilacqua - su genovaindierock)


Rigoletto al Teatro Carlo Felice

Con alcuni giorni di ritardo, giungo a parlare del Rigoletto, opera di Verdi che avevo già ascoltato e che mi piacque molto, finalmente ho avuto l’occasione di vederla dal vivo a teatro.
Il libretto di Piave, tratto dal dramma di Victor Hugo “Il re si diverte”, è notevole, contiene dei momenti molto alti, il profilo psicologico dei personaggi è scavato in profondità, le amorevoli parole che Rigoletto dice a sua figlia Gilda bastano a comprendere il cambiamento totale di prospettiva rispetto ad altre opere verdiane: “Culto, famiglia patria, il mio universo è in te!”

Il protagonista dell’opera non è un eroe, ma per la prima volta, un buffone, un deforme. Tutta l’opera si gioca sul grande tema del disprezzo, e della vendetta, che qui assume contorni veramente tragici: c’è il tema del ressentiment, la critica sociale alla vita libertina della corte, la dicotomia tra apparenza (la deformità che Rigoletto è costretto ad usare come un mestiere) e realtà (la vera natura di padre buono che si svela non appena Rigoletto entra tra le mura di casa): “Non dover, non poter altro che ridere! Il retaggio d’ogni uom m’è tolto: il pianto! [...] Se iniquo son, per cagion vostra è solo, ma in altro uom qui mi cangio!”

Il tutto viene mischiato con grande tensione drammatica: come dimenticare il bellissimo tema della maledizione e le imprecazioni di Rigoletto, che tornano a ricordare come un pendolo maledetto il destino malefico che aleggia sulla vicenda?

Oltre la tragedia e il dramma, la grande suspence della trama, specie nel terzo atto, con la straordinaria resa artistica del temporale (un anticipo di espressionismo o romanticismo allo stato puro?), unita allo squallido realismo della coppia “cattiva” (Sparafucile e Maddalena) che rende magnifica l’atmosfera del terzo atto.

Infine, la presenza leggera e leggiadra di Gilda, così come la leggerezza astuta del Duca, impediscono all’opera di cadere nella pesantezza, regalandoci momenti di incantevole grazia.

E’ da notare come il profilo psicologico di tutti i personaggi sia scavato alla perfezione: non solamente la straordinaria figura di Rigoletto. Anche i cosiddetti “antagonisti” (che non sono in realtà tali, perché Rigoletto in fondo non è altro che un committente di un omicidio, e anche quest’aspetto originale rende l’opera unica) non restano prigionieri del cliché.
Il Duca sembra essere un semplice don giovanni, eppure dalla sua celebre canzone traspare una sorta di regola di prudenza che lo costringe a comportarsi così (“La donna è mobile, qual piuma al vento, muta d’accento e di pensier. Sempre un amabile leggiadro viso, in pianto e riso è menzogner. E’ sempre misero chi a lei s’affida, chi le confida, mal cauto il cor! Pur mai non sentesi felice appieno chi su quel seno non liba amor”). Inoltre, aggiungo io, sulla mancanza di pensiero delle donne, il sacrificio senza senso della povera Gilda pare proprio dare ragione al Duca!
Sparafucile nonostante sia un vero criminale, ha una sua etica (“Uccider quel gobbo! Che diavol dicesti? Un ladro son forse? Son forse un bandito? Qual altro cliente da me fu tradito? Mi paga quest’uomo, fedele m’avrà”) , e la bella Maddalena, che probabilmente è una donna dai facili costumi, riesce a provare un grande sentimento di pietà per il Duca, che sarà poi all’origine dell’omicidio di Gilda e del tragico finale.

Finale dove, ancora una volta, torna il tema della maledizione: nel Rigoletto non c’è scampo, non c’è speranza, in questa vicenda di sentimenti bassi e profondamente umani come la vendetta, il disprezzo, la seduzione e l’innamoramento.
Le melodie di Verdi sono davvero stupende, avevo già postato tempo fa il duetto tra Sparafucile e Rigoletto, ma non posso non ripresentarlo, qui è condensata tutta la bellezza del Rigoletto: il tema cupo della maledizione, la leggerezza delle melodie, la straordinaria concretezza del dialogo, e in assoluto uno dei più bei duetti baritono-basso.
di Cavaradossi


Traviata” al Regio di Torino



Piero Pretti (Alfredo) e Patrizia Ciofi (Violetta). Foto Ramella&Giannese

Solo quattro le recite, fuori abbonamento, per Traviata, al Regio di Torino (dal 5 al 13 marzo). Per l’occasione è stato ripreso l’allestimento per la regia di Laurent Pelly in co-produzione con il Santa Fe Opera Festival che (diretta da Noseda) inaugurò la stagione 2009-10 e venne portata con successo a Tokyo. Traviata – si sa – è l’opera che fa più opera, il melodramma per antonomasia, l’opera in assoluto più rappresentata nel mondo (chi non ricorda le immagini finali di Pretty Woman con la bella Julia Roberts rosso vestita), insomma uno di quei titoli intramontabili che, da soli, garantiscono il tutto esaurito: e non a caso è così in questi giorni a Torino, teatro gremitissimo e gran successo con pubblico esultante a fine serata. Sul podio l’ottimo Corrado Rovaris (direttore dal 2005 della Philadelphia Opera Company) del quale si è molto apprezzata la concertazione attenta e scrupolosa, i tempi giusti, i bei fraseggi fin dal Preludio striato di mestizia e poi via via incalzante. Rovaris ha saputo conferire pathos e drammaticità dove occorre (memorabile il finale), ma anche la giusta scioltezza alle scene d’insieme (bene il dinamismo del primo atto) e delicatezze estreme per i momenti intimistici e introspettivi. Lettura equilibrata con momenti di vera emozione. L’orchestra lo segue assai bene e così pure il coro (istruito da Claudio Fenoglio), salvo occasionali incertezze ritmiche (ad esempio nel brindisi, quanto meno la sera dell’8).

Violetta, abbigliata in modo curioso (una Violetta in camporella, suggeriva qualche malizioso), scalza, con pantaloni e camicia, pare più protagonista di Fanciulla del West e finisce per scrivere la sua lettera accovacciata su un masso

Nel cast ha primeggiato il soprano Patrizia Ciofi (assidua al Regio negli anni) nel ruolo di Violetta, facendosi ammirare sia per l’eccellente interpretazione vocale, così pure per la superba prova sul piano scenico. La Ciofi è capace di delicati pianissimi, suoni morbidi e vellutati, ma sa anche dare corpo alle mille screziature psicologiche richieste al personaggio, e la scena finale, in particolare, ha innescato notevoli emozioni. Un vero trionfo, insomma, salutato da applausi vivissimi e meritati in toto. Il tenore Piero Pretti ha voce incisiva ed aitante; sicché di Alfredo Germont ha dato un’interpretazione esuberante (talora un po’ sopra le righe), strappando consensi convinti in vari momenti. Ottimo il baritono Nicola Alaimo nel ruolo del padre Giorgio Germont, ha dizione chiarissima, autorevolezza sia vocale sia scenica, assai applaudito ed apprezzato per la statura morale conferita al personaggio sbozzato con un’interpretazione ineccepibile. Nel cast meritano un plauso speciale l’Annina di Francesca Rotondo dall’incisiva, partecipe e commovente interpretazione, il Gastone di Enrico Iviglia (tenore astigiano dalle ottime qualità tuttora in ulteriore crescita); Silvia Beltrami ha dato voce a Flora, mentre Paolo Maria Orecchia impersona il barone Douphol e Scott Johnson il marchese D’Obigny. Da menzionare i validi ballerini Simona Tosco e Luca Martini (ancorché la regia li collochi in un contesto un poco fuori misura, ma non è colpa loro).

Ed ora la regia di Pelly che firma anche i costumi (regia ripresa da Anna Maria Abruzzese). Continua a destare perplessità, a partire dal Preludio a scena aperta con ‘passaggio di funerale’ in una Parigi piovosa, lugubre e umida: idea non certo nuova e un po’ troppo didascalica, sia pure in sintonia per così dire con Dumas. Se l’idea può apparire valida al fine di sottolineare la valenza anticipatrice dello stesso Preludio, vera sintesi sonora del tragico epilogo e tutti sanno come ‘va a finire’, per altri versi può anche distrarre dalla partitura stessa.


Sulla Scala un olandese che vola basso

Una regìa più ridicola che velleitaria; una compagnia di canto tendente al mediocre; un podio francamente deludente. Così questo Olandese abbassa ancora la media dei voti della Scala in questa stagione che doveva essere di livello storico…

Andreas Homoki, ahilui, non può nemmeno accampare la scusa di essere un giapponese che non conosce bene il tedesco (smile!) per giustificare le sciocchezze della sua regìa. Lui è un intelligentissimo crucco di origine controllata e garantita e oggi è addirittura il Lissner del Teatro dell’Opera di Zurigo (al che ho realizzato quale immensa fortuna abbiamo noi milanesi ad avere un soprintendente che non si diletta – perlomeno ancora – di regìa…)

Il suo soggetto è a dir poco sconvolgente e meriterebbe di vincere premi letterari in quantità industriale. C’è dentro di tutto: un po’ di Conte di Montecristo, poi l’epopea del capitalismo, forse anche lo spread; la crisi del colonialismo e persino l’avvento diBokassa (smile!)

Il problema non sta certo nell’ambientare la vicenda in qualche sede londinese di società di trading: quanto poco, anzi nulla, a Wagner importasse dove la vicenda materiale si svolge lo testimonia il fatto che cambiò lui per primo l’ambientazione, spostandola dalla Scozia (teatro dell’azione nei racconti che ispirarono l’opera) alla Norvegia (forse in ricordo della personale esperienza colà vissuta sul barcone Thetis).

Invece il problema sta nella società che il regista ci presenta a far da sfondo alla vicenda centrale dell’opera - rappresentata dal rapporto peccato-redenzione, alias Holländer-Senta - e nei personaggi che in questa società si muovono.

Non siamo più in un ambiente sostanzialmente familiare, da economia autarchica, dove i rapporti umani sono improntati a un vago socialismo paesano; dove Daland, per dire, non sarà propriamente uno stinco di santo, ma neanche un bieco e truce capitalista sfruttatore (Dev’essere comico, prescriveva Wagner, come conferma la musica che lo sorregge, perdinci, da tutti bollata come scopiazzatura di Auber, una cosa da donnicciuole o da invertebrati…); dove Mary è la tata di Senta che fa anche da chioccia alle ragazze del paese riunite in casa sua a filare allegramente all’arcolaio, cantando simpatiche filastrocche. Insomma, un ambiente magari fin troppo sereno e ricco di arcaica poesia nordica, della quale fanno parte anche i fenomeni naturali più preoccupanti, come gli uragani e le tempeste di mare.

No, invece il regista ci trasporta in pieno sistema capitalistico-colonialistico, quello che si stava consolidando, o cominciava a sperimentare qualche crisi, a fine ‘800; Daland è il CEO di una grande società mercantile con traffici planetari e stuoli di impiegati e impiegate trattati con metodi tayloristici: è un brutale sfruttatore di manodopera e forse anche un trafficante di schiavi negri, almeno a giudicare dalla presenza del personaggio – del tutto inventato! – del servo di colore. Ecco, per il Daland di Homoki ci vorrebbe, come minimo e per restare a Wagner, la musica che caratterizza Hagen, o Klingsor, o Alberich!

Mary è un’acida capufficio di uno stuolo di dattilografe il cui ambiente di lavoro e il cui atteggiamento sono agli antipodi di quelli immaginati da Wagner. Per il quale scenario Homoki avrebbe dovuto casomai propinarci la musica di Nibelheim…
Quanto all’Olandese, piuttosto che un peccatore in cerca di redenzione, qui ci appare come un volgare ricettatore di refurtiva, che cerca di piazzare al capitalista Daland, facendo quindi passare quest’ultimo anche per riciclatore di denaro sporco…

Il regista poi si millanta intelligente e perspicace, mostrandoci un’enorme carta geografica dell’Africa, evidentemente oggetto dei traffici di merci dell’armatore-capitalista Daland. Ora, che l’Africa fosse una meta dell’Olandese, che si era venduto l’anima al diavolo pur di passare il Capo di Buona Speranza, è un’illazione plausibile (quantunque il libretto taccia assolutamente che il Capo fosse proprio quello, lo sappiamo solo dalle storie che ispirarono Wagner – ma non dal principale ispiratore, Heine, attenzione! - per il resto potrebbe pure essere Capo Horn o Capo Passero…) ma mi dice Homoki che centra l’Africa con il povero Daland, che invece al massimo faceva la navetta (smile!) fra Norvegia (o Scozia) e Danimarca? E la trasformazione dello schiavo di colore in Bokassa, con l’Africa che brucia, è proprio la ciliegina su questa improbabile torta!

Gli unici due personaggi che Homoki non sfregia più di tanto sono, a dir il vero e per fortuna nostra, Senta ed Erik: lei una schizofrenica visionaria (il suo mezzo spogliarello è gratuito, ma in fondo non è la cosa peggiore dello spettacolo) e lui un sempliciotto di provincia. Ma è un po’ poco per la verità.

Essendo stato Homoki aiutante di Willy Decker, dal maestro ha preso alcune idee più o meno plausibili o criticabili per la sua messinscena (il Regio di Torino ha aperto la stagione 12-13 proprio con la produzione di Decker, peraltro assai più rispettosa dell’originale, va detto): fra le prime citerei il grande quadro a soggetto marino, sul quale a un certo punto si vede transitare un veliero; fra le seconde la scena del suicidio di Senta.

La cui fine – una auto-fucilata sotto il mento, così come la auto-pugnalata di Decker - è quanto di più lontano, ma proprio agli antipodi, dell’idea di Wagner. Per il quale la donna si sacrifica per l’uomo che sente di dover redimere, e lo fa con un gesto ben preciso: il lanciarsi dalla rupe verso il mare dove l’Olandese si sta allontanando, il che rende anche visivamente l’idea di un estremo tentativo di ricongiungersi a lui, tentativo che sarà (secondo Wagner, manco a dirlo) coronato da successo, come testimoniano le didascalie e soprattutto la musica del finale!

Qui invece noi assistiamo ad un volgare e spregevole gesto suicida, dettato da mera disperazione e follia nichilista. E nulla di nulla ci vien mostrato della redenzione del peccatore!

Ma quando la smetteranno questi registi da strapazzo di pensare di apportare valore aggiunto alle scelte originali di autentici geni, come Wagner?

Sul piano sonoro, più ombre che luci, mi vien da dire.
di daland


Jin Ju


Ottocento • In una premiata registrazione MDG l’interprete cinese propone una non comune lettura di tre note composizioni della letteratura pianistica più amata dal pubblico

Fino a che punto ci si può spingere oggi con l’ausilio (tutt’altro che da poco) di una scintillante tecnica pianistica, riuscendo allo stesso tempo a mantenere lo spirito di un’opera, quella dominante umana ed artistica che la rende attraente oggi come ieri? Non è una domanda nuova e non è tanto meno una domanda oziosa se si tengono in considerazione i sempre più sbandierati prodigi musicali provenienti sovente dall’Oriente, pronti a sbalordire platee più o meno dotte con una padronanza strumentale di tutto rispetto. Eccoci allora di fronte a questa pubblicazione targata MDG che vede protagonista la pianista cinese Jin Ju alle prese con un impegnativo programma diviso fra Beethoven (Appassionata), Czerny (La Ricordanza) e Schubert (Sonata D 958). 
Visitate anche: 8 link alla settimana  in quest'edizione davvero curiosa!



Internazionali

Quaresimal XXIII: Anna Netrebko

Netrebko said in a recent interview: “I cannot hold my voice any more. I tried quite a long time to stay in my repertoire and hold it back. But I don’t see any reason to do that any more, especially since my personality changed as well. I want something else.”

That´s putting it nicely. The “inas and onas” as Bidù Sayao called them would be (have been) her repertoire really. In the meanwhile her voice has become so heavy-weight with a large amount of phlegm and less vocal focus, that she is too heavy for this repertory which vocally would have suited her and vocally inadequate for Verdi or the real spinto repertory. The voice has lost much of its former natural elasticity (not only in regard to agility) and vocal resilience, which she is trying to make up for with considerable muscular effort, but her mainly full-voiced singing tends to sound monotonous and tiresome. Admittedly, the boost she still has in her high notes is remarkable, reminding one of those big notes Freni had in her prime.
di Selma Kurz


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