venerdì 15 marzo 2013

qui nei pressi... - 3 [Arte e Cinema]

Lorenzo Lotto nella Reggia di Venaria

Difficile discriminare se più nuoccia alla fama di un artista essere dimenticato che mal conosciuto: e vien voglia di decidere che se un grande spirito potesse scegliere, preferirebbe il silenzio alle mezze parole”, così scriveva la scrittrice Anna Banti ad incipit del suo libro dedicato a Lorenzo Lotto (1480-1556): un agile volume opportunamente recuperato e pubblicato nella collana Sms dell’editore Skira, un paio di anni fa. 
Il prezioso ritratto a parole firmato della romanziera e studiosa d’arte, sulla strada aperta dagli scritti di Roberto Longhi, finalmente restituiva la giusta statura a questo inquieto pittore, dalla vena sensibile e popolare, lontano anni luce dallo splendore e dal trionfo dei colori della pittura veneta a lui contemporanea.

Benché fosse veneziano e ventenne alla svolta del Cinquecento, la sua cultura visiva sembrava alquanto provinciale al confronto con il raffinato e poetico tonalismo di Giorgione o se paragonata al vigoroso realismo, laico ed espressivo di Tiziano.

Ma i suoi santi scavati dal tormento interiore, le sue timide Madonne, i suoi aguzzi e veritieri ritratti sono, se possibile, ancor più lontani dal classicismo idealizzante di Giovanni Bellini, che secondo la tradizione sarebbe stato suo maestro nei primi anni veneziani. Brusco ed immediato, poco propenso alla ricerca formale e alla trasfigurazione aulica dei soggetti rappresentati (anche nelle pale sacre) Lorenzo Lotto è stato forse il maggiore interprete in Italia di quello spirito nordico e riformista che si era andato diffondendo in modo più o meno sotterraneo nella piccola “borghesia” delle regioni del Nord della penisola. Ma non solo.

Lorenzo Lotto fu anche il cantore delle terre marchigiane e dei suoi rustici personaggi, come racconta la mostra Un maestro del Rinascimento. Lorenzo Lotto nelle Marche, aperta dal 9 marzo al 7 luglio nella piemontese Reggia di Venaria e incentrata dal curatore Gabriele Barucca su una ventina di opere realizzate da Lotto ad Jesi, a Recanati e dintorni.

Dedicata al periodo più fertile della produzione lottesca, l’esposizione, che ha fatto tappa anche al Museo Puškin di Mosca, in realtà è una piccola grande summa dell’arte di questo schivo e appartato artista: un viaggio sfaccettato nella sua poetica antieroica e borghese, dove trionfano penetranti primi piano di sarti e altri artigiani al lavoro, di ricche e addobbate signore di provincia, di giovani di belle speranze, di persone anonime che conquistano per la prima volta la ribalta della storia dell’arte.

In questo percorso espositivo sono tante anche le opere che raccontano episodi mutuati dai testi sacri e che appaiono sempre calati nella concretezza della vita di tutti i giorni, in modeste abitazioni e in brulli tratti di paesaggio, scavati da calanchi, come i volti dei solitari santi che Lotto metteva al centro della sua pittura altamente drammatica e narrativa. Calati nella quotidianità, nella storia, fuori da ogni distanza metafisica, così appaiono i suoi San Gerolamo e il suo San Vincenzo Ferrer proveniente dalla chiesa di San Domenico di Recanati e appena restaurato. Ma folgoranti sono anche i pannelli dell’annunciazione, dipinti a Jesi intorno al 1526 in cui le figure sacre si sporcano le mani con la faticosa quotidianità contadina, mentre lo sgomento che si legge sul volto di Maria arriva a sfiorare l’eterodossia. 
dal settimanale Left





Educazione siberiana

2013, Gabriele Salvatores.

A scandagliare lo sparuto ventaglio di titoli italiani distribuiti negli ultimi mesi, verrebbe quasi da azzardare che la cinematografia nostrana stia subendo una specie di lento, imperscrutabile processo rivoluzionario, intendendo con tale termine non l'aspetto eminentemente politico della questione, piuttosto il senso etimologico; cioè il (ri)volgersi verso un territorio altro, sia esso geograficamente circoscritto a uno spazio storico e nazionale diverso (e avverso) al nostro, oppure ritagliato, a mo' di delimitatissima enclave, addirittura all'interno della cultura domestica.
Non ci sono margini di errore, le pellicole più interessanti dell'anno appena concluso, Reality di Matteo Garrone ed È stato il figlio di Daniele Ciprì, rientravano ancora nella seconda categoria (quella dei film “sudamericani” più che italiani), mentre le più notevoli in apertura d'annata, La migliore offerta di Giuseppe Tornatore e questa di Gabriele Salvatores, ricadono nella prima sezione, rappresentata direttamente dalle quote estere, ovvero l'America e la Siberia. Sembra che la formula persegua flessioni ricorrenti, e che pur con qualche variabile nella disposizione degli addendi, senza però che il risultato finale ne sia inficiato, sono gli attori stranieri a dettare le regole di questo cinema ad “ampio respiro”: definire italiani i protagonisti degli italianissimi lavori di un Garrone sarebbe un insulto alla lingua di Dante, così come di italiano non hanno nulla le star dell'ultima fatica firmata da Salvatores, John Malkovich in primis, uno stuolo di misconosciuti attori russi in secundis. Insomma, per fare un buon film italiano, bisogna innanzitutto levare ogni riferimento alla madre patria, svuotarla da riferimenti iconografici, semantici e linguistici che non siano la sfumatura vernacolare, la riserva del campanilismo oppure, nel tentativo ormai collaudato di rivolgersi al mercato internazionale, lo spostamento di ambientazione ben oltre le frontiere alpine. La scelta del regista era quasi obbligata, perché tra tutti questo singolare partenopeo era forse l'unico capace di mutare forma e faccia a seconda dell'occasione, di passare dalla fantascienza all'amatriciana al noir-poliziesco, dal dramma impegnato di un Niccolò Ammaniti alla commedia interpretata dai più blasonati feticci del genere. I risultati non sono mai stati spettacolari, anche se una certa parte della critica ha pensato bene di coccolarlo e collocarlo sul piedistallo eburneo dei maestri, e forse è proprio per questo motivo che Educazione siberiana odora di capolavoro; perché Salvatores, camaleontico e paradossale per natura, ha girato forse senza preciso senso della consapevolezza un film di dimensione tornatoriana, ovvero di grande monumentalità registica, cura maniacale per i dettagli, location estere e storia adattata dalla narrativa russa (il romanzo omonimo di Nicolai Lilin è edito da Einaudi) anziché da un qualche trattatello patrio. Le maestranze sono comunque di casa, dagli sceneggiatori StefanoRulli e Alessandro Petraglia, fino alle musiche epiche ed etniche al contempo di Mauro Pagani e una fotografia lugubre e invernale ad opera di ItaloPetriccione. Eppure il risultato è lontano anni luce da un mediocrissimo lavoretto approntato lungo lo stivale, seppur da più fonti (parrebbe) orientato a una semplificazione del romanzo.

Educazione siberiana è ambientato in epoca di perestrojka, in una comunità rurale della Siberia, poco oltre il fiume Nistro', la cui peculiarità è che i cittadini sono tutti criminali “onesti”; rubano, ammazzano e delinquono, hanno corpi coriacei ricoperti di tatuaggi, come dei libri perfettamente leggibili in cui ogni segno corrisponde a un preciso avvenimento biografico, ma fanno del male soltanto a poche categorie di persone: poliziotti, usurai e banchieri. Non tengono mai il denaro rubato in casa, perché nonostante tutto sanno che è una cosa sporca, detestano lo spaccio ed educano la famiglia nel rispetto delle tradizioni, unendo la preghiera a sedute di combattimento corpo a corpo, e insegnando ai ragazzi a usare il coltello per ammazzare a sangue freddo e nel modo più veloce. È in questo ambiente che crescono due cugini, Kolima (ArnasFederavicius) e Gagarin (Vilius Tumalavicius, sosia di Silvio Muccino), amici (e nemici) per la pelle, che sotto l'egida di nonno Kuzja (John Malkovich) cominciano a dedicarsi alla violenza e alle rapine, condividendo la refurtiva per il bene della famiglia, fino a quando Gagarin non viene catturato e si fa sette anni di prigione. Una volta uscito, il ragazzo è cambiato, è avido di potere, non rispetta più le usanze degli avi, e presto, con grande disapprovazione dei compagni, si dedica al commercio della droga facendo comunella con i membri di un clan rivale, il famigerato Seme nero. Ecco che a complicare la situazione giungono in città un medico e la sua giovane figlia, Xania (Eleanor Tomlinson), una ragazzina mezza matta che si invaghisce di Kolima scatenando (forse) l'invidia di Gagarin. La situazione si fa presto insostenibile, e tra i due amici di un tempo, altrimenti legati da vincoli profondissimi, nascono rancori ormai impossibili da perdonare.

Il film parte benissimo, destreggiandosi tra due momenti temporali, la (contro)educazione di Kolima e Gagarin da parte del nonno e, molto tempo dopo, il reclutamento di Kolima nell'esercito della neonata federazione russa che, lungo le inospitali montagne di qualche distretto periferico, è impiegato in una importante operazione anti-droga. Inutile dire che il capo dei malavitosi è niente meno che Gagarin, ormai abbandonato da tutti, braccato tra le foreste, ancora dedito all'immaginarsi re criminale di un impero sgretolatosi sul nascere. Se fosse rimasto su questa lunghezza d'onda, il film di Salvatores sarebbe stato perfetto, ma purtroppo si lascia spesso cadere tra piccole sbavature, niente di particolarmente grave, ma abbastanza per sviare l'attenzione dello spettatore dall'impalcatura generale della pellicola: l'idea centrale era infatti quella di dispiegare la vicenda a flash-back, con un continuo gioco di rimandi tra la Siberia anni Ottanta e la Russia dell'età di mezzo, appena uscita, timida e formicolante dal socialismo, ma non ancora proiettata in pieno nell'economia occidentale. Il meccanismo funziona, almeno fino a quando la simmetria tra i tre principali blocchi narrativi (l'infanzia di Kolima, la sua adolescenza, la sua esistenza dopo il crollo dell'URSS) non perde la propria indefinibile unitarietà, permettendo a un percorso di accavallarsi sull'altro anziché seguirne lo sviluppo, soffocando personaggi e motivazioni che spesso risultano poco chiare e di sicuro non risolte. Per esempio, perché dare così tanto spazio alla storia d'amore/amicizia con Xenia e pochissimo all'anelito criminale di Gagarin, che pure uscito di prigione si rivela sin da subito l'antitesi del più composto Kolima? Oppure, che fine ha fatto nonno Kuzja? 
A un certo punto scompare senza un perché, nonostante i dissapori tra lui e l'ormai ribelle Gagarin facciano supporre che fra i due si possa apertamente consumare un qualche conflitto generazionale. Spunti interessanti, anzi fondamentali, che però Salvatores non approfondisce, così della storia di Gagarin come imprenditore del crimine non sappiamo nulla, della fine di Kuzja meno che meno, e soprattutto continuiamo a chiederci, pur senza ottenere risposta alcuna, come Kolima sia finito sotto le armi. Insomma, c'è uno spazio cronologico insoluto, tra la fine tragica di Xenia (non si dice altro per evitare anticipazioni), periodo che chiude l'adolescenza dei cugini, e quello invece della maturità, con un Kolima in divisa e l'avversario che combatte ormai solo e disperato dall'altra parte della barricata. La resa dei conti tra i contendenti è comunque d'obbligo, ma le modalità non soddisfano affatto, vedere per credere.
Educazione siberiana è un grande film, che si avvale di ottime interpretazioni, scelte registiche straordinarie (evidente la lezione de La promessa dell'assassino), ma che sfortunatamente inciampa troppo spesso nell'ambiziosa complessità delle sue premesse. Continua>>. 




Lés Misérables


2012 Tom Hooper


Anche il capolavoro di Victor Hugo, I miserabili ha la sua versione in musical, e proprio questa versione è portata sul grande schermo da Tom Hooper.Il film è tutto cantato, e per seguirlo hanno messo i sottotitoli, quindi ve lo potete gustare con le voci originali degli attori.

C'è da dire che è un opera che rispetta troppo la sua teatralità, e forse questo è il suo limite, di certo Tom Hooper non ha la dimestichezza nè l'originalità di unBaz Lhurmann, ma è la storia che conquista e che fa centro creando una specie di alchimia con il pubblico capace di catturare la sua attenzione, viene però molto facile immedesimarsi nei personaggi che sono splendidamente interpretati da un cast di attori che da il meglio di se.
La sorpresa per me è stata vedere Hugh Jackman in un ruolo più adulto di quelli in cui ci ha abituati, un ruolo più umano e meno animalesco del solito, ed è sorprendente come da vita al suo Jean Valjant, uomo incarcerato perchè per la disperazione ha rubato un tozzo di pane, atto commesso per salvare la vita del suo nipotino, ma nello stesso tempo compiendo un altro atto per salvarsi la pelle, un prete capisce la sua disperazione e gli da i candelabri.

Quale cosa migliore per decidere di cambiare vita e fare del bene?
E il bene riesce a farlo, quando Fantine, una giovane ammalata madre di una bambina Cosette viene cacciata dalla fabrica di Valjant, - che ha cambiato nome per diventare una persona rispettabile - perchè è una ragazza madre da delle sue colleghe invidiose, che avevano paura che la giovane gli rubasse i mariti, lui decide di prendersi cura di Fantine, quando la vede in strada a prostituirsi,
La giovane morirà di lì a poco affidandogli la sua bambina, che è vittima di una coppia spregievole; lui salva la vita alla bambina e la mette sotto la sua ala facendole da padre.
Il film è incentrato su questo rapporto padre-figlia che colpisce nel profondo, ma è l'aguzzino del carcere che gli sta con il fiato sul collo e non ha mai smesso di dargli la caccia che è il rapporto di maggior impatto del film, bravissimo Russel Crowe nel suo ruolo di cattivo se possiamo definirlo così, i migliori momenti del film sono in questo scontro, tra un atto compiuto per pura umanità anche se sbagliato, e tra chi vuole imporre il rispetto della legge non comprendendo le reali intenzioni di quell'uomo.

Il film non è un capolavoro, ma i suoi punti di forza sono nella sceneggiatura brillante e nella recitazione degli attori, non stanca mai e riesce a colpire soprattutto per come viene rappresentato, ma dobbiamo anche ammettere che l'opera risulta molto teatrale, girato in maniera documentaristica, alcune scene sembrano girate in presa diretta, e questo diminuisce di fatto l'impatto stilistico del film, il regista invece di dare la sua impronta personale e dare il suo parere alla scena si limita a fare un film d'attori evitando troppo di esprimere se stesso, limitandosi a dirigere il musical e basta.
La regia è quella che pesa maggiormente per la riuscita del film, che si limita a filmare un opera teatrale lasciando che gli attori facciano il lavoro grosso, ed è un peccato perchè aveva molte possibilità per essere se non un capolavoro un ottimo film.

Resta comunque un opera brillante per quanto riguarda la musica, le canzoni, e i personaggi, che sono caratterizzati da un cast di attori in piena forma.
Sinceramente a me è piaciuto, anche se mi aspettavo molto, ma resta un opera apprezzabile se volete storie capaci di creare alchimie, comunquesia consiglierei di recuperare il libro, io lo farò molto presto se avrò le possibilità.
Buona visione.





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