giovedì 28 febbraio 2013

qui nei pressi.. - 2


Notizie da mondo del Web!

DIDO AND AENEAS, HENRY PURCELL – TEATRO RISTORI, VERONA, GIOVEDI’ 21 FEBBRAIO 2013, ORE 20,00



Eccoci trasportati tantissimi anni addietro. Siamo nel meraviglioso mondo dell’epica, dei poemi che hanno fatto la storia della letteratura mondiale, ed in questo caso la storia del nostro popolo, dato che il protagonista della vicenda è narrato come il fondatore del paese in cui viviamo. Enea, l’eroe virgiliano, qui rivive nella musica di Henry Purcell in un capolavoro che fortunatamente il Teatro Ristori di Verona ha accolto per tre sere con discreto successo di pubblico.


Dal poema di Virgilio, l’Eneide, è tratto questo splendido gioiello che è Dido and Aeneas di Purcell, in cui la storia si concentra sullo sventurato amore della grande regina di Cartagine, che diventa una donna qualsiasi di fronte al sentimento più celebrato al mondo. Qui sono introdotti anche altri personaggi come streghe e maghe. Aldilà delle intenzioni politiche dell’epoca o meno che si dice possa avere avuto l’autore nel comporre questo gioiello musicale, la prima rappresentazione fu nel 1689, e resta un lavoro splendido, uno dei primi esempi di un’opera che si avvicina a come la intendiamo noi oggi.

Didone muore per il troppo amore, sentimento senza il quale tanta parte delle opere che ci fanno oggi emozionare a teatro non esisterebbe.

E nei disegni della regista Marina Bianchi ci sono tutti questi sentimenti, sicuramente in evidenza. Centro di tutta la messa in scena è questo amore sofferente della regina per il guerriero che senza pietà la abbandona per il suo dovere. A sottolineare questo le letture in versi tratte dall’’Epistulae Heroidum’ di Publio Ovidio Nasone interpretate dell’ attrice Ermelinda Pansini ,che esemplifica il pensiero della protagonista con l’ intensità di una pièce teatrale, inframmezzando le scene sul palco, come a rafforzare quanto già la musica offra agli spettatori. Unitamente a ciò, una serie di balletti offerti dal corpo di ballo dell’Arena di Verona. Se delicati possono definirsi quelli in cui la prima ballerina impersona Didone e la sua leggiadria ci porta al suo sentimento dolce ed intenso al contempo, piuttosto discutibili gli interventi dei ballerini al seguito della Maga che qui sembra la tenutaria di un bordello femminile con tanto di scudiscio e catene con cui tiene al guinzaglio i suoi ‘boys’. In generale dunque, una produzione ad ampio respiro, tendente al moderno, grazie anche ai costumi di Leila Fteita molto più vicini a noi di quanto potessero essere ai tempi dell’antica Cartagine. Mentre la scenografia è costituita dalle colonne del palazzo di Didone, che si trasformano e si aprono a seconda della scena in corso, ma che sostanzialmente non variano molto.


La compagnia di canto è giovane, fresca, in cui si distinguono le due protagoniste: Didone,Roberta Invernizzi, che ci porta la sua vocalità leggera fatta di piccoli vocalizzi e scale discretamente eseguite, e soprattutto la Belinda di Maria Hinojosa Montenegro, che col suo colore più pieno e tecnicamente preparata ha offerto una Confidente credibile e sciolta. Non ha un ruolo particolarmente pregnante il protagonista maschile, Leonardo Cortellazzi, alias Enea, nonostante il titolo (forse perché l’opera pare fosse a suo tempo scritta per un collegio femminile), il quale ha offerto una esecuzione piuttosto ‘elegiaca’ delle sue arie. Più chiaro il colore della Seconda Donna, Irene Favro, e bella l’interpretazione della Maga Marina De Liso, che è riuscita a mantenere una certa leggerezza vocale pur possedendo un mezzo più scuro e corposo. Chiudono il cast le due Streghe, Alessia Nadin ed Elisa Fortunati, agghindate come la Maga come mangiatrici/dominatrici di uomini, lo Spirito, Teona Dvali, ed il Marinaio, Paolo Antognetti.

Il coro dell’Arena di Verona di Armando Tasso è stato impegnato in arie dal sapore elegiaco di grande atmosfera, e sono stati parte integrante dell’opera con grazia e buona resa canora.

Il Maestro Stefano Montanari, anche primo violino per l’occasione, ha diretto senza l’ausilio della bacchetta con leggerezza e sintonia col palco questo scrigno musicale di Purcell, introducendo in questa rappresentazione anche altri pezzi dello stesso autore, nonché dell’italiano Matteis, per citare il prologo e la fine del secondo atto, ad indicazione di uno studio attento della composizione e degli eventi, in modo che potessero essere sottolineati anche da ulteriori elementi musicali tipici dell’epoca.

Il pubblico ha gradito molto il risultato finale, con lunghi applausi e apprezzamenti ai protagonisti.




SEDA ORTAC, CARLO VENTRE, SIMONE PIAZZOLA, MARCO SPOTTI PER VERONA LIRICA, DOMENICA 24 FEBBRAIO 2013


Il circolo Verona Lirica prosegue con i suoi concerti all’insegna della bella musica ed assegnando il premio alla carriera agli artisti che si sono resi meritevoli in questi anni di rappresentazioni di successo in giro per il mondo. Ieri è stata la volta del tenore Carlo Ventre e del baritonoSilvano Carroli, il primo per i successi che ottiene da anni con grandi consensi nei principali teatri d’Opera, in particolare per il suo modo di interpretare il ruolo di ‘Radames’ nell’ Aida di Giuseppe Verdi; il secondo per celebrare tutta la sua onorata carriera da baritono, in produzioni storiche che difficilmente si vedono oggigiorno (come egli stesso ha sottolineato nel ringraziare i presenti). Uno schermo sul palcoscenico ha mostrato una storica esecuzione della cabaletta ed aria di Ezio dal verdiano Attila, interpretate qualche anno fa in Arena dal baritono, con grande commozione del presidente dell'Associazione Tuppini ed applausi di riconoscimento del pubblico.

La squadra messa a punto per il concerto ha visto impegnati il tenore premiato, insieme al soprano Seda Ortac, il baritono Simone Piazzola, ed il basso Marco Spotti, come sempre accompagnati dal Maestro Patrizia Quarta al pianoforte, con mano consapevole e puntuale.

Il soprano Seda Ortac ha offerto arie di Abigaille dal Nabucco di Verdi, dalla Gioconda di Ponchielli, dalla Turandot di Puccini, ed in duetto con Ventre l’aria dalla Tosca di Puccini ‘Mario! Mario!..’, nonché ‘Pur ti riveggio, mia dolce Aida’ , naturalmente di Verdi. La voce del soprano è certamente di timbro molto acuto, ed infatti nel registro di testa offre le migliori prestazioni, anche con buon volume d’emissione, tant’è che l’aria ‘In questa reggia’ ci è parsa la migliore, proprio perché più adatta a queste caratteristiche; certamente ha le doti per migliorare anche la gamma centrale, ove il suono tende leggermente ad indebolirsi.

Carlo Ventre, oltre ai duetti con la collega, ha cantato arie dalla Manon Lescaut di Puccini, l’immancabile ‘Nessun dorma’ dalla citata Turandot, ed il bis a ringraziamento del premio, ‘Granada’, ove la sua potenza di emissione ha potuto essere sfogata liberamente, mentre il talaltre esecuzioni potrebbe essere anche più contenuta.

Come ormai ci ha abituati, il baritono Simone Piazzola ha eseguito con classe ed intensa partecipazione le sue arie, rendendo quasi possibile immaginare un palcoscenico allestito per una produzione intera, tanto egli si immedesima in ciò che esegue, senza mai essere eccessivo, con grazia e bella voce piena da baritono: arie dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti, dalla Traviata di Verdi, nel cui ruolo di Germont è particolarmente a suo agio, e la meravigliosa ‘Morte di Rodrigo’ dal Don Carlo, sempre di Verdi.

Infine, il basso Marco Spotti ha eseguito arie dal Macbeth, I Masnadieri ed il Simon Boccanegra di Verdi, e dalla Gioconda di Ponchielli, con timbro di basso di buona forza, ma che potrebbe donare di più in quanto ad interpretazione.

Con la consueta targa agli artisti premiati per la loro presenza, ed un accenno al duetto d’amore Zerlina/Don Giovanni dalla celebre opera di Mozart di Carroli con l’esordiente Anna Consolaro, si è chiuso anche questo festoso concerto domenicale, presentato anche stavolta dal simpatico Davide Da Como della Fondazione Arena di Verona.



Enrico Caruso, da Napoli al Metropolitan



Anniversario • Nasceva a Napoli il 25 febbraio 1873 il leggendario tenore

Poche personalità della ribalta operistica hanno ricevuto il dono di irradiare un’allure tanto potente di mito – in bilico tra il divino ed il popolare, ma comunque assoluto – come Enrico Caruso. Irresistibili ingredienti hanno sin dall’inizio contraddistinto la sua vita, che continua ad affascinare perché incredibilmente romanzesca: nato diciottesimo di ventun figli (quasi tutti morti in fasce), provvisto dalla Natura di un talento eccezionale, ripudiato dalla natìa Napoli dopo una serie di recite dell’Elisir d’amore (questo punto della sua biografia ha sempre lasciato adito a dubbi: pare, infatti, che fosse Caruso a non sentirsipropheta in patria, quando invece il San Carlo gli avrebbe tributato un buon successo), star assoluta del Metropolitan, dove s’esibì in più di ottocento recite. Perdipiù, entrò nelle grazie dei maggiori esponenti della Giovane Scuola, che scrissero appositamente per lui, tra le altre, le parti di Federico nell’Arlesiana e di Maurizio di Sassonia in Adriana Lecouvreur(Cilea), di Loris Ipanov in Fedora (Giordano) e di Dick Johnson nellaFanciulla del West (Puccini), quest’ultima creata proprio sulle assi del palcoscenico del tanto amato MET.

La portata innovativa di Caruso non è da ricercarsi soltanto nella vocalità, ma anche nella sua intuizione riguardo le potenzialità “globalizzanti” del disco: fu il primo cantante a vendere più di un milione di copie e, tramite tale supporto, sdoganò la canzone napoletana. Core ‘n mano, è vero, ma anche «Core ‘ngrato»: il brano di Alessandro Sisca e di Salvatore Cardillo si confaceva benissimo al suo sfortunato legame con Ada Giachetti, da cui ebbe due figli ma che troncò il sogno d’amore (già sufficientemente incrinato a causa d’Enrico, va riconosciuto) fuggendo con il loro autista. E se nella capitale partenopea il tenore non poté o non volle vivere, il destino, ironico talvolta nel proporre alcune coincidenze, decise per lui: lì dov’era nato avrebbe dovuto concludere il proprio, breve ma glorioso, cammino. A Napoli, cui era stretto da un vincolo d’amore e morte, morte fu: recrudescenza di una pleurite infetta. Come Ettore Bastianini, un altro grande della lirica il cui fiore sarebbe sbocciato da lì a qualche decennio – stroncato da un cancro alla faringe –, fu tradito da un organo di quell’apparato respiratorio che lo rese grande. Dappertutto e per sempre. Perché, se per il celebre pezzo «Tutt’ è passato e nun ‘nce pienze cchiù», per noi, a centoquarant’anni dalla nascita e a novantadue dalla morte, Caruso è memoria storica indelebile.



Addio a Wolfgang Sawallisch (1923-2013)



Coccodrillo • Si è spento all’età di 89 anni il direttore d’orchestra e pianista; era nato a Monaco di Baviera

Il nome di Wolfgang Sawallisch (26 agosto 1923 – 22 febbraio 2013) suona al musicofilo dei nostri giorni con quell’aurea mitica che appartiene ai grandi della musica di altri tempi, custodi di una tradizione preziosa che taluni ricordano con triste e severa nostalgia, altri con genuina e sincera ammirazione. Sawallisch non è stato solo un eccellente direttore d’orchestra e pianista – in tale doppia veste concertò in un’ultima apparizione pubblica nel 2004 la Petite messe solennelle di Rossini con l’Accademia di Santa Cecilia a Roma – ma uno straordinario uomo di cultura di cui Monaco di Baviera, sua città natale, va giustamente orgogliosa. L’era di Sawallisch alla guida della Bayerische Staatsoper, dal 1971 come direttore musicale e dal 1983 fino al 1992 anche come sovrintendente, ha significato per l’Opera di Monaco un periodo glorioso, nel quale il continuativo ed esauriente omaggio alla “locale” tradizione di Strauss e Wagner è stata da lui condotta in modo mai banale o autocelebrativa, bensì coniugando livelli di qualità e richiamo internazionali con un atteggiamento umile e scrupoloso, quasi pedagogico, sulla complessiva produzione di questi autori.

Chi oggigiorno apprezza il superbo livello qualitativo del Bayerisches Staatsorchester sa individuarne le ragioni in decenni di lavoro sviluppatisi non soltanto sotto la sua guida diretta, ma anche grazie alla continua interazione con le più grandi bacchette ospiti, in un’epoca in cui Pipistrelli, Cavalieri della rosa e Traviate diretti da Carlos Kleiber costituivano appuntamento ricorrente nella capitale bavarese. Wagner sarà fin dal debutto nel 1957 al Festival di Bayreuth con Tristan und Isolde uno dei compositori più frequentati da Sawallisch, con anche alcune importanti tappe italiane, tra le quali figura il celebre Ring del 1968 alla Rai di Roma. Direttore capo, dopo Monaco, della Philadelphia Orchestra dal 1993 al 2003, nel marzo 2000 l’Auditorium del Lingotto di Torino ancora festeggiò Sawallisch alla testa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai in un programma composto dalla mozartiana Jupiter e dall’Eroica di Beethoven: programma classico per un erudito Kapellmeister, eccellente didatta e preparatore di orchestre che, con geniale preveggenza ed ironica autoconsapevolezza, volle riservarsi la battuta-cammeo del servo che prepara i cavalli proprio in quello storico e mitico disco in studio dello straussiano Capriccio che, con la Philharmonia Orchestra di Londra, Sawallisch incise nel 1957-58 per la Emi di Walter Legge.



Notizie da Vienna: Bellini: La Straniera Musikverein 18.2.2013


Edita Gruberova (Alaide)
Sonia Ganassi (Isoletta)
José Bros (Arturo)
Paolo Gavanelli (Valdeburgo)
Randall Bills (Osburgo)
Sung Heon Ha (Prior)
Leonard Bernad (Montolino)
Münchener Opernorchester & Philharmonia Chor Wien
Pietro Rizzo (conductor)


So what is there to expect of an opera, which requires really first class singers to show itself in the best possible light and about a 67-year-old Primadonna who wants to prove to herself and to her public that she can still do it? Reading in advance the names of the rest of the cast I was wondering whether she would be able to carry/sustain the evening more or less on her own. The cast is the same as on the night of her debut as Alaide last year in July at the Munich Gasteig.Yes, Gruberova still can do it and she was better than expected (or feared). And yes – she still has her mannerisms, her little vices and exaggerations as well as her stiff notes and her weak lower register. And, of course, she knew exactly where she had to show her true colours and where she could save a little. As always with her, there were notes or expressions, which made you shake your head in anger and then there were passages which left you with mouth wide open and which you were drinking in, as you knew you wouldn´t be hearing phrases and notes like these again so soon. She audibly was in good voice, which still is admirably firm without a hint of a wobble, its sound is remarkably „healthy“. She is a little short of breath and power towards the end of the top notes, but really: who else sings such notes today with such intensity and such a well-focussed cutting edge? Personally, I felt that Alaide suited her better than Elisabetta in Devereux and certainly Norma. It is among the best things I heard from her in the last 10 years and she certainly has got guts and does not avoid risky top notes. She was only one singing without the score in front of her. – A professional from head to toe, one could hear that she was the only one on stage who had a „plan“ about her role, a structure and a shaping of her vocal part while the others were struggling (more or less so) with the vocal demands oft he score. While the voice itself is not exactly a „voce modesta“, but no vocal miracle either, as a singer she is still towering head and shoulders after 45 years of career (which she celebrated in this performance) above almost all colleagues today – certainly above her co-singers in this „Straniera“. She certainly sounds younger and in better vocal health than Sonia Ganassi in her late Fourties:

Sonia Ganassi is adequate, but I could not think of any significant virtue to be singled out. The middle range is the better part of it, but while she pushes the low notes her top sounds harsh and forced. The sound is rather thick and not well focussed, a lyric voice really, but Ganassi audibly tries to artificially create a bigger and darker sound than that of her natural voice.

Apart from Gruberova I found José Bros the most satisfying of the rest of the cast. His passionate singing mostly making up for the lack of volume and incisiveness. He mostly sings forte, pushing too much in the middle range thus the top sounds forced and narrow. When he tries to sing mezza voce the voice does not carry and respond like it should.

Gavanelli had almost raving reviews in most cases. Newspapers were writing about a „cultivated and noble sound“… Nothing could be further from the actual truth. He is loud and making big, mostly ugly, sounds, but at least he does try so differentiate a little and add some nuances. The voice sounds almost torn in two: the lower middle range and low notes sound better, but from the passaggio area upwards he has major intonation problems, the top notes he just blurts out with full power.

Randall Bills (Osburgo), Sung Heon Ha (Prior) and Leonard Bernad (Montolino) were ok, but nothing more.

Standing ovations for Gruberova who is said to have stated in an interview with a wink that she would mind any applause lasting less than 20 minutes. Well – she missed it by only 60 seconds…




Stefano Tirasso per i Tre Allegri Ragazzi Morti



La mia vita senza te.
Mercoledì 27 Febbraio, in occasione del concerto dei Tre Allegri Ragazzi Morti al teatro dell’Archivolto di Genova, esporrò alcuni miei lavori nell’atrio del teatro! Quasi tutti le opere che presenterò saranno accomunate dal tema della musica nell’illustrazione e nel fumetto: potrete quindi trovare ritratti di musicisti, illustrazioni e storie a fumetti basate su canzoni, eccetera… E ovviamente ci sarà anche questa illustrazione, ispirata all’omonima canzone dei TARM.

Siateci, passatemi a salutare (prima o dopo il concerto) e godetevi la musica di Davide Toffolo e soci!

A presto
st’13



Vino Bianco, Semplicemente Vino, Bellotti Bianco.




A prima vista l’etichetta di questa bottiglia potrebbe sembrare un po’ pretenziosa.

Ma guardando bene e assaggiando, si può dire che il Sig. Bellotti avrebbe potuto osare di più.
Semplicemente Vino risulta quasi riduttivo.
Io avrei aggiunto un articolo: Semplicemente IL Vino.
E' ancora più pretenzioso, ma suona ancora meglio.
Avere nel bicchiere un vino cosi è estremamente appagante, un punto di arrivo, finalmente “IL VINO”.
L’aspetto è già veramente notevole.
La bottiglia trasparente enfatizza le tonalità giallo dorato del contenuto, che nel bicchiere risulta cristallino, se non addirittura brillante.
La limpidezza non risente dell’esiguo residuo di fondo presente, che risulta particolarmente pesante e in particelle non fini che tendono a precipitare rapidamente.
La consistenza è notevole, scorre lentamente e c’è parecchia materia, nonostante la percentuale di alcool non eccessiva.
Al naso è intenso, ma sfoggia una discreta complessità fatta di sfumature sottili ma ben distinte.
Susina goccia d’oro, erbe aromatiche, fieno sfalciato di fresco, felce, e una nota che ricorda il profumo del grappolo d’uva fresco con tanto di raspo.
E’ in bocca che da il suo meglio.

Ingresso fresco, intenso.

Si allarga morbido, con la sapidità che maniene in tensione il sorso.
Finale intensamente sapido, con discreto allungo su perfette corrispondenze gusto-olfattive.
Beva stratosferica.
Un vino apparentemente semplice, ma che richiede sicuramente una grande capacità tecnica, soprattutto parlando di biodinamica.
Pulito, preciso, gustoso e beverino, di quelli che vorresti trovare sempre sulla tavola.
Dovrebbe essere preso ad esempio da chi ha l’intenzione di cimentarsi con questo tipo di agricoltura, ma anche da chi produce vino già da tempo da agricoltura convenzionale.
Se il Sig. Bellotti sta cercando un punto di arrivo, la perfezione, penso ci sia arrivato molto vicino.
Torniamo all’epoca dove, al ristorante, si poteva ordinare solo vino bianco o rosso.
Cameriere: Vino Bianco, Bellotti Bianco !
Semplicemente IL Vino Bianco.



Carema 2008 - Cantina Produttori di Carema


Nebbiolo in purezza coltivato sulle pendici rocciose della conca di Carema, dove l'anfiteatro morenico di Ivrea comincia a lasciare il posto alle montagne valdostane e alle valli scavate nei millenni dalla Dora Baltea. Qui, su vigne terrazzate esposte a sud-ovest, pendii scoscesi e rocciosi contenuti da muretti a secco, si genera un microclima molto stabile e protetto dai freddi venti nordici che vengono giù dalle vallate valdostane.


Il nebbiolo, vitigno dalle straordinarie potenzialità quanto dalla difficile adattabilità, trova qui una sua forma particolare, che lo avvicina più a quelli valtellinesi che ai nebbiolo langaroli. Lo definirei quindi più di montagna, sottile, con gradazioni alcoliche inferiori, e una struttura meno pronunciata.



Profumi leggiadri di violetta e piccole bacche rosse ne caratterizzano il naso, mai invadente, quasi ritroso a volte, con spunti balsamici, quasi di erbe alpine.


In bocca entra in punta di piedi per poi aprirsi potente, ma non muscolare, sempre con gentilezza, finezza ed eleganza, ma deciso e con un suo carattere ben preciso. Il tannino mostra una certa astringenza e spigolosità; non risulta tanto arrotondato nonostante i 3 anni di botte grande, però mantiene una bellissima freschezza e una sferzante acidità.

Cantina dei Produttori di Carema
via Nazionale, 32 - Carema (TO)
cantinaproduttori@caremadoc.it





NEPOMUCENO (ESERCIZIO N°7) - Benaco Bresciano I.G.T. - Az. Agr. Cantrina




I nomi dei vini, le etichette, gli assemblaggi, le note degustative mai scontate, l'approccio "libero" alla materia, tutto rimanda alla filosofia di Cantrina, dove i vini diventano un libero esercizio di stile.


Assimilato l'interessante focus sui vini sardi, riparte Passaggi Etilici, ovvero Simo diVino alla "voce" e Avionblu in "console"... per un trittico di vinimoderno/tradizionale/naturale... e questa volta il buon Andrea, mi "smazza" una interessante bottiglia dal nome alquanto particolare e prodotta da una piccola e creativa cantina della Valtenesi, sponda bresciana del lago di Garda.


Siamo virtualmente ospiti di Cristina Inganni e Diego Lavo, moglie e marito... studi presso l'Accademia delle Belle Arti per lei, agronomo lui... connubio perfetto per realizzare il progetto Cantrina, piccola realtà di 6ha da cui si ricavano 25/30.000 bottiglie, in grado di legare il territorio grazie alle conoscenze in materia di Diego e l'estro artistico e un po' visionario di Cristina. A completare questa realtà familiare la consulenza del team enologico Zymè che ben si amalgama con lo stile di Cantrina.

Per questa azienda agricola nata negli anni novanta, l'approccio alla vigna é stato molto sperimentale, così come i suoi vini, indirizzandosi soprattutto sui vitigni internazionali. Ma a partire dal 2000 con l'ingresso di Diego si é iniziato a lavorare sulle uve autoctone, valorizzando il terroir a disposizione e puntando su una scrupolosa gestione del vigneto ad elevata densità d'impianto.

Possiamo quindi inquadrare Cantrina come una realtà piuttosto giovane, dove convogliano diverse sinergie e attitudini, che ama slegarsi dal concetto "classico" di vino, legato alle denominazioni, per realizzare attraverso un "libero esercizio di stile", vini figli della sperimentazione e della creatività, avvalendosi della più snella IGT. I nomi dei vini, le etichette, gli assemblaggi, le note degustative mai scontate, l'approccio "libero" alla materia, tutto rimanda alla filosofia di Cantrina, dove i vini diventano un libero esercizio di stile.

E così, alla linea di vini "consolidata" (oltre mal Nepomuceno abbiamo il Groppello, il Rosanoire, lo Zerdì, il bianco Rinè, il passito Sole di Dario e il rosso dolce Eretico), viene affiancata da un'etichetta denominata proprio "Libero esercizio di stile" dove ogni anno sotto questa etichetta, viene proposto e sperimentato un vino nuovo. Anche sulla retro etichetta non troverete mai indicate le annate ma il progressivo numero "dell'esercizio". Insomma mi verrebbe da dire... che se le inventano tutte!!

Entrando nello specifico dello stappato odierno... andiamo ad assaggiare il vino più importante di Cantrina, ovvero il Nepomuceno, un vino a base Merlot, con una piccola aggiunta delle locali uve Rebo e Marzemino (circa 70 e 30%), ricavato da un piccolo vigneto impiantato nel 1998 di un ettaro e poco più, con una resa inferiore ai 50hl/ha. Incuriosisce sicuramente il particolare nome di questo vino, che fa riferimento al sacerdote boemo che è raffigurato nella pala d’altare presente nella piccola chiesa di Cantrina. Per il resto macerazione e fermentazione in vasche di acciaio a temperatura controllata e affinamento di 24 mesi in barriques e tonneaux. Produzione annua di circa 6000 bottiglie.


Nel bicchiere veste un rosso rubino scuro con riflessi violacei, intenso e concentrato, impenetrabile e profondo. Decisamente poco snello, ma di grande pulizia. Al naso esce il carattere del Merlot, c’è intensità e persistenza, il frutto è tondo e pieno, con frutta nera ultramatura, dolciastro ma mai banale, sottotraccia ecco la pungente spinta alcolica (15%vol.) accompagnare le più amarognole note erbacee e vegetali, prima di chiudere lungo, su sentori speziati e balsamici. Un bel bouquet articolato, carico e pieno, intrigante e mai piacione o banale come a volte capita con certi Merlot costruiti a tavolino. Anche la beva riesce ad essere piacevole ed intrigante. E’ un vino importante e di grande struttura, con una trama tannica fitta ma piuttosto fine, che riesce a donare un tocco di eleganza ad un vino che di base è piuttosto robusto. Caldo, corposo, riempie bene la bocca, quasi grasso con quel frutto marmellatoso masticabile, ma anche qui assaporiamo un vino mai scontato, c’è una mineralità di fondo che snellisce la beva, una piacevole sapidità, accompagnata da note leggermente salmastre e vegetali (peperoni) che evitano al vino di rimanere seduto su stesso o eccedere in sensazioni zuccherine. Il finale è lungo, profondo, piacevole e balsamico.


Un gran bel Merlot e se volete il complimento vale doppio considerando che il sottoscritto non è proprio un fan della categoria. Al di la dei gusti personali devo ammettere che questo Nepomuceno mi ha convinto fin da subito, proprio per la sua capacità di non scendere mai a compromessi, dimostrandosi roccioso e grassottello (diciamo che un bicchiere dopo l'altro, la beva può risultare abbastanza pesantina...) come ci si aspettava, ma anche in grado di sfoggiare nerbo e carattere, lasciando a chi beve la sensazione di un vino ben fatto tecnicamente, ma che riesce a mantenere un tocco di rustica artigianalità che lo rendono un cavallo di razza.

Chiudo qui per non dilungarmi troppo, ma devo ammettere di essere rimasto positivamente sorpreso per due ragioni, o meglio due forme di diffidenza... una verso il Merlot, essendo il sottoscritto più nebbiolista che merlottiano (che volete i gusti son gusti.. e preferisco vini più pungenti che rotondi), l'altra nei confronti delle cantine che puntano molto sulla sperimentazione, sul "famolo strano", che spesso si rivelano tutto "fumo" e poco "arrosto". Fortunatamente questo non é il caso di Cantrina, il loro Nepomuceno é un vino che "spacca" e i loro "liberi esercizi di stile" sono fatti con competenza.

Amanti del Merlot siete avvisati... il Nepomuceno puo' diventare uno dei vostri vini preferiti, una piccola-grande chicca da acquistare e custodire gelosamente, é un vino longevo e chissà quali interessanti evoluzioni potrà avere da qui a una decina di anni. Prezzo di acquisto di poco sopra le 20 euro (lo trovate qui) per questo grande vino di piccola cantina. Voto:7.5




Luca. Libraio FNAC. Parte prima


Continuiamo a parlare di FNAC e di quello che sta accadendo. Nei giorni scorsi, leggendo alcuni dei messaggi lasciati in coda al mio pezzo, ho notato che molte persone mettevano in evidenza solo l'aspetto “commerciale” o “espositivo” del negozio. Ognuno di noi ha una propria idea di quale sia la libreria ideale, neppure io amo i megastore, nonostante ci lavori. Però se domani mi dicessero che la libreria per cui lavoro chiude il mio mondo andrebbe in pezzi. Normale, direi. Così come è normale che vengano meno gli equilibri famigliari, sociali, relazionali di ogni persona che perde il lavoro. Perché significa passare da uno stato di “sicurezza” a uno di “imprevidibilità”. E se a vent'anni puoi anche permetterti di pensare che forse il tuo futuro è altrove o che puoi fare altro nella vita a quaranta vedi le cose in modo diverso. Nel momento in cui scrivo questo pezzo non so ancora nulla di Luca. So che lavora in FNAC e che è stato, per ora, l'unico a darmi la sua disponibilità ad apparire sul blog. Nei prossimi giorni parleremo con e di lui. Oggi però voglio farvi leggere un pezzo che ha scritto.

Perché dietro agli scaffali, in mezzo ai libri, non importa se di una libreria di catena o se di una libreria indipendente, ci sono persone.

Tutti i lavori hanno uguale importanza, tutte le persone dovrebbero avere uguale dignità. Però quando chiude una fabbrica è più facile che ci sia un effetto mediatico. Quando chiude una libreria, invece, magari c'è qualcuno che pensa che, dopotutto, non è un gran male. Che tanto ce ne sono altre. Che era solo un supermercato del libro. Che i “commessi” erano scortesi. Che i libri costano meno se li compro on line.

Bene. Però per ogni libreria che chiude, dietro ogni serranda che si abbassa, ci sono persone con nomi, volti e storie.

Questa è quella di Luca.


“E’ frustrante, ma non se lo meritano.
E’ umiliante, ma non se lo meritano.
E’ triste, ma non se lo meritano.
Non si meritano niente.

D’accordo, era un posto di lavoro, non era mia l’azienda però negli ultimi 5 anni ho speso qui dentro più tempo e ore in valore assoluto di qualsiasi altro posto, più di casa mia, più del letto di casa mia dove mi coricavo a dormire dopo aver finito il turno alle 10 di sera.

E ti fanno sentire come se fosse tua la colpa, come se fossi stato tu che hai fatto chiudere il negozio, come se fossi tu quello che non ha saputo dare la marcia in più quando c’è una crisi mondiale, creata da loro, sì, creata anche dai “padroni” – e voglio proprio usare questa parola dal sapore antico ma ancora attualissima – di Fnac. I grandi manager, quelli che hanno studiato economia all’Università, e poi magari frequentato un Master alla Business School di Londra e chissà che altro; loro, che non sanno nemmeno il patrimonio che hanno disperso, un “brand” diverso, innovativo fondato quasi 60 anni fa da 2 due militanti marxisti della corrente trozkista (!) con ben altre intenzioni e altro spirito.
Non parlo di questo, parlo del patrimonio fatto di ragazze e ragazzi, donne e uomini che in questa azienda hanno creduto, che hanno gioito quando sono stati assunti, che si ritenevano tra gli ultimi fortunati, “che hai un contratto a tempo indeterminato? Ma davvero…”. E gli amici ti invidiavano perché potevi pensare a programmare un futuro, non dico a sposarti e comprare casa e metter su famiglia (tanto il mutuo non te lo danno nemmeno se hai il contratto a tempo indeterminato) ma magari potevi sentirti un po’ più tranquillo, pensare che tra qualche anno, passata la crisi, avresti avuto una buona base per ripartire.
E invece, niente. Non si meritano niente.

di Luca Cardin da Cronache dalla libreria




Un tè come lo bevono gli inglesi per onorarare il Margarret’s Hope FTGFOP 1 Muscatel, 2nd flush del 2012, produzione ovviamente Darjeeling.





Ci sarebbe molto da raccontare intorno ai giardini del tè nel Darjeeling. Per questo tè mi potrebbe bastare sapere che proviene da uno dei giardini più belli, chiamato Margaret’s hope, in accordo a una leggenda che parla della speranza della figlia di un britannico di tornare a bere il tè prodotto da quei giardino, dopo averlo provato ed essersene innamorata. Purtroppo durante il viaggio di ritorno in Gran Bretagna, Margaret morì. Il padre, proprietario del giardino, decise di chiamarlo appunto Margaret’s hope.

Questo tè che ho con me è un second flush del 2012, ovvero frutto del secondo raccolto ed è un FTGFOP 1, ossia Finest Tippy Golden Flowery Orange Pekoe, una nomenclatura tipica dei Darjeeling, a volte anche degli Assam, che indica il miglior grado di produzione, lavorato con particolare attenzione.



Raccolto a Giugno, questo Darjeeling di secondo raccolto è rotondo e morbido, il liquore è lucente, colore della ruggine, il sapore moscato.

Per prepararlo si procede con un’infusione molto semplice e nota a tutti, ossia per le dosi un cucchiaino da caffè di tè per una tazza come quella che vedete in foto (150 ml), per l’infusione fate bollire l’acqua e, quando bolle, versante una parte nella teiera e tazze per riscaldarle. Fatto questo, gettate l’acqua, e adagiate le foglie nella teiera e versate sopra l’acqua che nel frattempo di è riposata nel bollitore. Lasciate in infusione per 3 minuti, poi filtrate.

Annusando le foglie, l’odore è preminentemente floreale, ma al primo sorso ho sentito un sapore amaro, poi floreale e dolce. Si percepisce sempre un fondo di morbidezza.

Questo tè è ideale per il tea time inglese per almeno due motivi:

1) Quando il Margaret’s hop e è bollente in tazza, emana note astrigenti anche se non del tutto spiacevoli. Ho notato, tuttavia, che quando il tè si raffredda in tazza, è assolutamente dolce e morbido. Questo è un tè che accompagna le discussioni leggere del pomeriggio fatte davanti a una tazza senza temere che il tè si raffreddi troppo presto.

2) Per le sue caratteristiche è perfetto con gli scones, i “piccoli panini dolci” tipici del tea time britannico, con l’uva sultanina al suo interno ad esempio.

Scones all’uva sultanina di Rose Bakery (da Il Cavoletto di Bruxelles)

Ingredienti

per circa 15 scones
farina 500g
latte 300ml
uvetta 160g
burro 110g
lievito per dolci (baking powder) 2 cucchiai abbondanti
zucchero 2 cucchiai
sale un cucchiaino
uovo 1

Setaccia la farina, il lievito e lo zucchero e mescola. Aggiungi il burro ammorbidito a cubetti e lavora con le dita fino a far sciogliere il burro. Aggiungi al centro il latte e mescola con una forchetta. Aggiungi l’uva sultanina e mescola. Stendi la pasta con il matterello su una spianatoia fino allo spessore di 3 cm e poi ritaglia tanti cerchi con una forma dal diametro di 5 cm. Riponi i cerchietti su una teglia con carta da forno e metti in forno preriscaldato a 200 gradi per 20 minuti.



Tazza e piattino bone china as Royal Vale. Made in England. A product of Ridgway Potteries ltd. In vendita.

Margarret’s Hope FTGFOP 1 Muscatel, 2nd flush del 2012. http://www.lochantea.com/





PETTO D’ANATRA ARROSTO IN SALSA DI GOJI E CONFETTURA DI ROSA CANINA



Nevica a Milano, nevica a larghe falde e questa volta, a differenza di quanto accaduto in settimana, la neve attacca. Si è avvinghiata ai rami spogli degli alberi rivestendoli della sua candida magia, e mi ha fatta tornare indietro di due mesi, ricordandomi irresistibilmente il Natale.
Una tazza fumante di gløgg, un plaid caldo e colorato sulle gambe e un buon libro, con della musica rilassante di sottofondo, ci sarebbero stati proprio bene.
E invece no: ho rimandato il relax alla sera e mi sono messa ai fornelli, perché una decina di giorni fa mi è arrivata la boîte magique dall'Azienda Agricola Prunotto, che sponsorizza il nuovo contest di Emanuela-Arricciaspiccia: Dolcemente salato.


L'Azienda Agricola Prunotto ha mandato alle partecipanti 4 prodotti dolci con cui realizzare ricette salate: confettura di rosa canina, gelatina di aceto balsamico, gelatina di dolcetto e composta di fichi.

Ho voluto cominciare dal prodotto che mi ispirava di più, la confettura di rosa canina, e ho voluto abbinarla al petto d'anatra, che notoriamente va d'accordo con la frutta, creando salsa di frutti rossi, dove i goji la fanno da padroni, ma dove la nota discreta della confettura di rosa canina, unita ad aceto di lamponi e crème de cassis, si fondono a meraviglia.
Per la preparazione del petto d'anatra ho usato la doppia cottura: grigliatura iniziale per provocare la reazione di Maillard e il calore diffuso del forno per completare la cottura.

Il risultato finale a me è piaciuto e spero che lo apprezziate pure voi.

PETTO D’ANATRA ARROSTO IN SALSA DI GOJI E CONFETTURA DI ROSA CANINA

Per 4 persone:


2 petti d’anatra
30 g bacche di goji disidratate
30 g burro
1 scalogno
50 ml vino bianco secco
Il succo di 1 arancia
Il succo di 1 lime
20 ml aceto di lamponi
1 cucchiaio di confettura di rosa canina
1 cucchiaio di crème de cassis
Sale
Pepe di mulinello

Preparare la salsa: far rinvenire i goji per mezz’ora in una tazza di acqua calda, poi scolarli.
Far fondere il burro in una casseruola e appassirvi lo scalogno finemente tritato. Versarvi il vino, il succo di agrumi e l’aceto di lamponi e portare a ebollizione. Unire a questo punto i goji – tenendone da parte qualcuno per la decorazione - e il brodocaldo (che, lo ricordo, non deve essere salato), salare leggermente e abbassare la fiamma, facendo sobbollire fino a ridurre la salsa della metà.
Frullare la salsa ottenuta, unirvi un cucchiaio di confettura di rosa canina e un cucchiaio di crème de cassis, regolare di sale e pepe e tenere in caldo.

Arrostire i petti d’anatra: preriscaldare il forno a 190 °C in modalità statica.
Eliminare con una pinzetta eventuali residui di piume rimaste sui petti d’anatra, pareggiarli tagliando la pelle in eccesso ai bordi, quindi incidere col coltello la pelle praticando dei tagli trasversali. Fare altrettanto nel senso opposto in modo da ottenere delle incisioni “a rombo”.
Mischiare in una ciotola sale e pepe di mulinello e massaggiare con essi i petti da ambo i lati.
Scaldare su fiamma vivace una padella che possa andare anche in forno e quando è sufficientemente calda adagiarvi i petti dal lato della pelle. Non è necessario aggiungere alcun grasso, quello contenuto nella pelle si scioglierà e sarà più che sufficiente (direi perfino… eccessivamente abbondante! J).
Far dorare i petti per qualche minuto, poi voltarli e farli grigliare un paio di minuti dal lato della carne. Spegnere il fuoco, toglierli momentaneamente dalla padella ed eliminare il grasso in eccesso.
Rimettere i petti in padella adagiandoli dal lato della pelle e infornarli per 7-8 minuti se si vuole la carne al sangue, 10-12 se la si vuole cotta a puntino.

Estrarre la carne dal forno e farla riposare 10 minuti, poi affettarla e servirla, nappandola con la salsa di goji.



La Red Velvet e altre storie. Raccontate da...




L'articolo che segue è una vera e propria monografia sulle torte a strati statunitensi, meglio note come Layer Cake. L'autrice è Anne, la nostra concorrente americana, che sarebbe stato impossibile non coinvolgere in questa avventura. Pur partecipando da poco, all'MTC, è una firma molto amata e molto attesa e chi ha avuto qualche anticipazione sulla scaletta del blog di questo mese aspetta con impazienza questo momento. A dire il vero,quando noi le avevamo chiesto un articolo, eravamo lontane anni luce dall'immaginare che ci sarebbe arrivato"questo": vale a dire, un breve trattato che non sfigurerebbe su riviste di ben altro spessore del nostro blog. Nello stesso tempo, Anne è così: generosa, scrupolosa, attenta e - soprattutto- capace come pochi di affrontare ogni cosa con rispetto ed impegno. Per dirne una, la traduzione italiana è sua. E, per dirne un'altra, non c'è stato bisogno di correggere neanche una virgola. Il resto, come si diceva, è un lavoro di grande spessore, che ricapitola e approfondisce i precedenti contributi di Acquaviva e di Elisa. Lo pubblichiamo fra oggi e domani, ma il nostro consiglio è quello di farne tesoro: perchè lo merita, per davvero.

Nel suo libro Old Town Folks (1869) Harriet Beecher Stowe osservava che “il pie e' un'istituzione inglese, che, trapiantata sul suolo Americano, immediatamente dilago' e proruppe verso una varietà incalcolabile di generi e specie. Non solo il vecchio mince pie, ma mille germogli rigorosamente Americani spuntarono da quel ramo principale, da cui si evince la capacita' delle casalinghe americane di adeguare le vecchie istituzioni a nuovi usi. "
La sua osservazione si applica di certo a tutti i nostri dolci originariamente portati dal Vecchio Continente. L'ingegno e lo spirito di innovazione americani produssero variazioni veramente originali e tipicamente americane sui vecchi temi. E quanto sopra non potrebbe essere più vero di quanto lo sia per le torte.

Le torte contrassegnate con una stella sono creazioni originali americane.
Come mostrato nell' illustrazione le torte erano, e sono tuttora, suddivise in due principali categorie, con e senza burro. In quest'ultima categoria, il Pan di Spagna vero e proprio, Sponge Cake ,(lievitato solo con uova montate) fu modificato per produrre l'Angel Food, una creazione originale americana descritta ad esempio da Fannie M. Farmernel suo influente Boston Cooking-School Cook Book (1896). Altre variazioni, contenenti lievito, sono state il Pan di Spagna con acqua o latte caldi (quest'ultimo divenne la base per la Washington Pie e la Boston Cream Pie), così come il Pan di Spagna fatto con acqua fredda. Nella categoria delle torte al burro, il Pound Cake fu il punto di partenza per le torte a strati, che a loro volta diedero origine al più americano di tutti: il meraviglioso Frosted Layer Cake . Diverse varianti vennero create, dal Golden/Yellow Cake a base di uova intere al Silver/White Cake fatto solo con albumi (che divenne anche tradizionale per torte nuziali), al Velvet Cake (così chiamato per la sua particolare consistenza tenera) al Devil's Food Cake fatto con cacao naturale e non trattato all'olandese. Infine, quasi un secolo dopo, lo Chiffon Cake, un'altra invenzione veramente americana, fece da ponte tra le due categorie, unendo il meglio delle due tipologie con l'uso di olio vegetale al posto del burro. La torta risultante era leggera come un Angel Foodma con la morbidezza ricca del Pound Cake.







Gli attrezzi del mestiere


Queste ricette innovative non furono solo il risultato dell'ingegno culinario americano ma anche di sviluppi tecnologici, sia in termini di ingredienti che di attrezzature. I primi tipi di torte erano lievitati solo col lievito residuo dal processo di fermentazione della birra (barm) o con gli albumi montati---quest'ultima un'impresa non facile in un momento in cui i frullatori elettrici non erano ancora disponibili. Intorno al 1750 il pearl ash (carbonato di potassio) ottenuto da ceneri di legna divenne il primo tipo disponibile di lievito chimico, liberando la casalinga dalla imprevedibilità del lievito di birra. Cinquant'anni dopo il saleratus (bicarbonato di potassio) fu introdotto al posto del pearl ash. Non fu un gran miglioramento, pero', visto che anche il saleratus, come il pearl ash, lasciava un retrogusto amaro nel prodotto finito--una conseguenza ovviamente indesiderabile. Nel 1850 il bicarbonato di sodio sostitui' il saleratus grazie alla sua affidabilità e alla mancanza di un retrogusto amaro. Il bicarbonato di sodio se abbinato con ingredienti acidi come melassa o latticello forniva la necessaria reazione chimica per la produzione di dolci leggeri e ariosi. Nel 1856---prima dell'inizio della Guerra di Secessione---il lievito chimico (baking powder) vero e proprio, che eliminava la necessità di aggiungere ingredienti acidi, divenne disponibile sul mercato americano.



Il secondo passo necessario verso la creazione delle torte a strati come le conosciamo oggi fu l'invenzione della cucina economica di ghisa. Inizialmente, le casalinghe cuocevano nel focolare, direttamente sul fuoco. Molto presto, un forno riflettente a forma rettangolare con una estremità aperta fu disponibile ed utilizzato in America per tutto il XVIII secolo. IlDutch Oven, (una pentola di ghisa) e lo "Spider", (una padella in ghisa), entrambi appoggiati su tre gambe e dotati di un coperchio concavo su cui si ponevano carboni ardenti, erano ampiamente utilizzati per la cottura nel caminetto. Intorno al 1700 il forno ad “alveare” (beehive oven), integrato nelle mura del focolare, cominciò ad essere usato, tuttavia la temperatura del forno non era né costante né facile da regolare e gli incendi, spesso mortali, non erano un evento raro.

Questa foto, che ho scattato durante una vacanza pochi anni fa', mostra uno scorcio delle cucine di Monticello, residenza del Presidente Thomas Jefferson e della sua famiglia in Charlottesville, Virginia. Appeso nel caminetto si vede un piccolo Dutch Oven. Poggiato a terra c'e' un forno riflettente e a destra nel muro accanto al camino il forno “ad alveare” (beehive oven).




Le prime stufe di ghisa---la produzione di stufe fu una delle prime industrie delle colonie americane--- erano destinate al riscaldamento e non per cucinare. Venivano collocate nel camino poiche' fornivano un sistema di riscaldamento più efficiente. La cucina economica (range), una stufa in ghisa progettata esclusivamente per cucinare, fu introdotta alla fine del XVIII secolo. Benjamin Franklin aveva ideato numerosi miglioramenti per le stufe da riscaldamento e il conte Mumford progetto' la prima cucina economica nel1798. Il gas naturale a partire dal 1840 fu disponibile per le abitazioni private e la cucina economica venne adattata per il suo utilizzo. Intorno al 1890 il forno della cucina economica sostitui' il camino grazie ad una maggiore sicurezza e possibilita' di controllo della temperatura che il forno ad alveare non avrebbe mai permesso. Nel1856 il frullino a mano fu inventato da Ralph Collier di Baltimora e ben presto divenne ampiamente utilizzato dai cuochi americani.


Una volta resi disponibili agenti lievitanti e forni affidabili, le prime ricette per torte a strati cominciarono ad apparire nei libri di cucina americani. Come menzionato prima, le torte a strati nacquero come versioni modificate del Pound Cake. L'aggiunta di lievito chimico nell'impasto del Pound Cake permise di utilizzare meno burro e meno uova, e le torte potevano essere cotte piu' in fretta, a strati sottili; tutte modifiche che appaiono fatte, almeno inizialmente, per una questione di economia. All'inizio, le torte a strati erano "torte alla gelatina di frutta" (Jelly-Cake), e consistevano di almeno quattro sottili strati di torta spalmati con gelatina e venivano poi sia rivestite di glassa (frosting) che non. Nel corso del tempo gli strati vennero cotti in stampi piu' profondi e raggiunsero lo spessore che hanno ancora oggi. Una ricetta di Jelly-Cake si trova nel libro di cucina della signora Cornelius The Young Housekeeper's Friend (1859) in cui si consiglia di usare 3 cucchiai di impasto per ogni tortiera o uno solo al fine di ottenere strati proprio molto sottili. L'autrice suggerisce gelatina di ribes o lampone. Per inciso, quelli di noi che hanno amato la lettura di Piccole Donne di L. M. Alcott forse ricordano che il libro della signora Cornelius era proprio quello consultato da Meg nel suo tentativo disastroso di preparare la gelatina di ribes.
Spesso, le prime ricette di torte a strati avevano quantita' piuttosto elevate di lievito. Ciò era dovuto in parte alla necessità di compensare il volume relativamente scarso ottenuto utilizzando il frullino a mano e in parte al fatto che molte ricette erano fornite in ricettari promozionali distribuiti da società che producevano il lievito e tendevano a favorire un maggiore utilizzo del loro prodotto.

A partire dagli Anni '20 il frullino elettrico divenne ampiamente disponibile e questo segnò l'inizio dei più alti livelli di popolarità delle torte a strati che duro' fino alla fine degli anni '50, con molte aziende produttrici di mix pronti per realizzare facilmente tutti i tipi tradizionali di torte a strati, Yellow e White Cake e Devil's Food. Dagli anni Sessanta e Settanta le torte fatte in casa iniziarono ad essere viste come un residuo di un' era diversa, in cui le donne avevano il tempo libero e la volonta' di trascorrere lunghe ore in cucina per le loro famiglie. Recentemente, hanno goduto di una nuova popolarità a causa della nostalgia per la moda retrò e il revival del vintage.

La famiglia allargata dei Frosted Layer Cakes

La grande maggioranza dei Frosted Layer Cakes furono inventati negli Stati del Sud degli USA e, in un certo senso, si può vedere come il loro carattere assomigli molto a quello di una vera Southern Belle---dolce, bella e graziosa, con il giusto tocco di dramma e molta piu' sostanza di quanto si possa sospettare. Se la torta al burro è il fondamento indispensabile, la glassa e farcitura (frosting e filling) sono le componenti complementari che definiscono in effetti la natura ultima di ogni tipo di torta a strati. Quella che segue è una breve panoramica dei Frosted Layer Cakes più famosi del nostro repertorio.

Lane Cake. Creata dalla signora Emma. R. Lane, si aggiudico' il primo posto alla fiera di Columbus, Georgia. E' realizzato con strati di White Cake farcito di crema al Bourbon e uvette, e poi glassato con frosting alla meringa cotta. Presto ottenne una popolarità diffusa e l'autrice incluse la ricetta nel suo libro auto-pubblicato Some Good Things to Eat (1898). Harper Lee elevo' questa torta agli onori letterari menzionandola nel suo romanzo Il buio oltre la siepe (1960).

German Sweet Chocolate Cake. Il nome di questo dolce può essere fuorviante. Infatti, non è una creazione tedesca, ma piuttosto una torta fatta con un tipo di cioccolato fondente prodotto dalla Baker's Chocolate Company, creato da un suo impiegato, Samuel German, nel 1852 e chiamto cosi quindi in onore del suo inventore. La torta con lo stesso nome appare circa un secolo più tardi creata dalla signora George Clay di Dallas, Texas. L'impasto della torta e' fatta con tale cioccolato e latticello e il tipico frosting e' a base di caramello, cocco e noci pecan.

Smith Island Cake. Specialita' di Smith Island, Maryland, la torta comparve a partire dal 1800 e vanta almeno 8, ma il più delle volte fino a 15, strati molto sottili di Yellow Cake riempiti e glassati con glassa fondente di cioccolato, ed e' tanto deliziosa da mangiare quanto difficile da fare. Questa è una torta che mette alla prova la perizia di chi la esegue e può creare o distruggere la propria reputazione come pasticceri. Guardandola con attenzione, questa torta mantiene la forma primitiva della layer cake, cioe' e' composta di molti strati piuttosto sottili come descritto in precedenza riguardo alla Jelly Cake originaria.

Coconut Cake. Un altro classico del Sud, fatta con strati di White Cake con Seven-Minute Frosting mescolato con cocco grattugiato. Una variante tradizionale comprende un'aggiunta di lemon curd tra gli strati, diventando cosi'Lemon Coconut Cake, in quest'ultima versione è indicato anche come torta del Generale Robert E. Lee, per l'abitudine di nominare dolci in onore di personaggi famosi.

Yellow Cake with Fudge Frosting. Una torta classica, realizzata con due spessi strati di yellow cake, e' analoga alla Smith Island Cake, con frosting al cioccolato.

Minnehaha Cake. Prende il nome da un personaggio di fantasia nel famoso poema di Henry Wadsworth Longfellow Song of Hiawatha del 1855. Minnehaha significa principessa ridente. Molte versioni della ricetta, fatta con Yellow Cake e frosting di zucchero di canna, uvetta e, talvolta, noci di hickory sono presenti nei libri di cucina dell'800, come ad esempio My Favorite Receipt pubblicato dalla Royal Baking Powder Company nel 1898.

Lady (and Lord) Baltimore Cake. Una specialità di Charleston, South Carolina. È costituita da strati di White Cake con Seven-Minute Frosting mescolato ad uvetta, fichi secchi e noci pecan tritati. L'esterno e i lati sono ricoperti di Seven-Minute Frosting semplice, cioe' senza frutta secca aggiunta. E' usata tradizionalmente anche come torta nuziale. Non è chiaro chi l'abbia inventata, ma comincia ad essere trovata in ricette stampate a partire dal 1906. È interessante notare che la torta è descritta dallo scrittore Owen Wister in un romanzo ambientato a Charleston. La torta è preparata dal personaggio principale del romanzo, Alicia Rhett Mayberry, soprannominata appunto Lady Baltimore, e la torta porta il suo nome. Sembra probabile che la ricetta attuale sia stata creata dopoche Wister la rese famosa nel suo libro. A quel tempo, a Charleston, c'era di certo una Lady Baltimore Tea-Room, gestita dalle sorelle Ottolenghi, dove questa torta veniva servita. La sua controparte Lord Baltimore Cake è fatta con tuorli (che avanzano dalla preparazione del White Cake per la Lady Baltimore ) e farcita di Seven-Minute Frosting con aggiunta di noci di pecan, mandorle, ciliegie candite tritate, succo di limone, scorza d'arancia e amaretti secchi sbriciolati. La parte superiore ed i lati sono ricoperti di semplice Seven-Minute Frosting.

Hummingbird Cake. Una torta tradizionale degli Stati del Sud, compare a partire dalla metà del 1800; si compone di quattro strati di torta arricchiti con noci pecan macinate, ananas sciroppato, banane schiacciate, e cannella, ricoperta e farcita di Cream Cheese Frosting alla vaniglia. La ricetta venne pubblicata per la prima volta in assoluto nel 1978 nella rivista Southern Living, inviata dalla signora L.H. Wiggins di Greensboro, North Carolina. È singolare per il fatto che contiene olio vegetale al posto del burro.

Carrot Cake. Non è chiaro quando e da chi questa torta sia stata inventata, anche se l'uso di carote nelle antiche torte inglesi non e' insolito. La ricetta è quasi identica al Hummingbird Cake, con le carote grattugiate che prendono il posto dell' ananas sminuzzato e delle banane, o, talvolta, sostituendo solo le banane. La glassa anche è la stessa. Pur esistendo da tempo, divenne popolare negli Stati Uniti negli anni '60, forse perche' contenendo una verdura, cioe' le carote, sembrava in linea con l'interesse degli Hippies per i cibi “salutari e naturali”; di certo non la peggiore tra tutte le idee terribili portate avanti da quella generazione.

Chocolate Blackout. Questa torta è un' altra anomalia nella categoria dei Layer Cakes in quanto non fu creata nel Sud, ma a Brooklyn, New York. Era la torta piu' amata e famosa della Ebinger Bakery e prende il nome dal blackout messo in atto a New York nel corso delle esercitazioni dei Civilian Defense Corps. nel 1957. E 'una torta al cioccolato farcita e ricoprta con budino al cioccolato e briciole di torta al cioccolato cosparse sulla parte superiore. La Ebinger Bakery era stata fondata nel 1898 e chiuse per fallimento nel 1972.

Wellesley Fudge Cake. Un altro Layer Cake che non ha avuto origine nel Sud, ma nel New England, composto da strati di torta al cioccolato glassata e farcita con Chocolate Fudge Frosting. Il nome si riferisce ad un determinato ingrediente utilizzato nella stessa torta, cioe' il fudge, una sorta di cioccolatino a quanto pare inventato nel 1886 a Baltimora, nel Maryland. Nel 1888 gli studenti del Vassar College prepararono 30 kg di fudge da vendere ad un'asta di beneficenza. Il termine “fudge”, per inciso, si ritrova nel gergo Americano (slang) a partire dal 1830 col significato di "bufala" o "imbroglio". Inizialmente si riferiva al fatto che il fudge pur avendone l'apparenza non era cioccolato vero e proprio. Inoltre, partecipare alle riunioni per preparare il fudge era la scusa perfetta per le studentesse universitarie per rimanere fuori fino a tardi mantenendo l'apparenza di decoro e rispetto delle convenienze. In Chocolate and Cocoa Recipes and Home Made Candy Recipes, un libretto promozionale di ricette al cioccolato pubblicato nel 1909 dalla Walter Baker & Company e scritto da cuoche famose come Maria Parloa compaiono tre ricette di fudge che prendono il nome dai tre principali College femminili, cioè Vassar, Smith, eWellesley.

Le origini del Red Velvet Cake e del Devils Food Cake non sono chiare e per molti versi si intrecciano e confondono tra loro. Varie teorie, piu' o meno fondate, vengono ripetute da tempo e solo questo rende in qualche modo necessario prenderle in considerazione, prive come sono di riferimenti storici verificabili. Probabilmente, il mistero non verrà' mai risolto, e forse questo e' un bene perché' fa parte del loro fascino che, soprattutto il Red Velvet Cake, continua a persistere. Non sempre vale la pena di svelare tutto ciò che e' misterioso, in quanto alla fine quel che resta spesso non e' che una delusione.

Considerazioni filosofiche a parte, conviene esaminare per prima cosa i nomi di questi due ultimi Layer Cakes. Il termine velvet (velluto) compare prestissimo nei ricettari Americani e si riferiva semplicemente ad un tipo di torta con una consistenza molto morbida, ottenuta con una particolare tecnica di preparazione dell'impasto. Tenendo conto del fatto che in generale le farine Americane sono piuttosto ricche di glutine, e quindi forti, ottenere torte sufficientemente morbide era difficile prima dell'avvento del lievito chimico. Una soluzione al problema era quella di preparare l'impasto per le torte al burro mescolando prima burro e farina, e unendo solo dopo i liquidi, come le uova. Il burro fungeva da “impermeabile” sulle particelle di farina, evitando cosi' di sviluppare eccessivamente il glutine una volta entrate in contatto coi liquidi. Il metodo viene ad esempio consigliato da Lydia M. Child nel suoThe American Frugal Housewife publicato nel 1829. In seguito, il termine' resto' ma la tecnica fu in qualche modo dimenticata, grazie all'avvento del lievito chimico a partire dal 1856. Infatti, Fannie Farmer nel suo Boston Cooking-School Cookbook (1896) fornisce una ricetta di White Velvet Cake (bianco, cioe' senza cacao o cioccolato) la cui morbidezza e' ottenuta grazie all'uso del lievito chimico e alla sostituzione di una parte della farina con amido di mais, senza minimamente menzionare questa tecnica.

Il Devil's Food Cake , una delle torte al cioccolato piu' famose del nostro repertorio, segna uno degli inizi della storia d'amore tra gli Americani e il cioccolato, che continua a tutt'oggi senza cedimenti. Anche per questa torta, non sappiamo bene a chi vada il credito di averla inventata, cosi' come non sappiamo chi in effetti abbia inventato iBrownies, un'altra specialita' al cioccolato originale Americana. Partiamo dal nome: tra tutte le teorie, quella che sembra avere maggior senso, se non prove a favore, e' quella che lo attribuisce alla scelta di mettere in luce le caratteristiche di questa torta come il completo opposto dell'Angel Food Cake. Tanto quest'ultima e' leggera e candida da evocare una natura angelica e “pura” quanto la prima e' golosa e scura tanto da evocare origini molto meno elevate e molto piu' peccaminose, infernali appunto.

In che modo il Devil's Food e il Red Velvet Cake si intrecciano fin quasi a confondersi e di certo fino a confondere noi, che vorremmo sapere una volta per tutte la verita' sull'origine di ciascuna? A complicare ulteriormente le cose, il Devil's Food veniva anche chiamato con diversi altri nomi. In un libretto promozionale della Baker's Chocolate Company pubblicato nel 1936, che fa parte della mia piccola collezione di ricettari d'epoca, sono presenti ben sei ricette di Devil's Food Cake, con nomi che vanno da Red Devil, a Sour Cream Devil's Food Cake, a Two-Step Devil's Food Cake, in alcune si mette del caffe' nell'impasto, in altre no. Non e' fatta menzione di nessuna Velvet Cake, ne' tantomeno di un Red Velvet Cake. In un libro precedente, pubblicato per conto della Walter M. Lowney Company, il primo produttore di cioccolato negli Stati Uniti (poi soppiantato dalla Baker's Chocolate Company), ho trovato una insolita versione di Devil's Food che include cannella e chiodo di garofano macinati. Il libro risale al 1912 e fu scritto da Maria W. Howard, famosa a suo tempo perche' si era diplomata alla Boston Cooking-School sotto la direzione di Fannie Farmer, di cui Maria fu allieva. Per inciso, potrebbe essere proprio Maria colei che per prima invento' i brownies.

L'apparente legame tra il Red Velvet e il Devil's Food a quanto sembra deriva dal fatto che il colore rosso del Red Velvet venne attribuito (erroneamente) da molti giornalisti e autori di libri di cucina ad una reazione che avverrebbe tra il cacao e il bicarbonato, che a loro dire produceva un colore rossiccio. L'affermazione e' totalmente errata dal punto di vista chimico, perche' in realta' la reazione tra un ingrediente acido come il cacao col bicarbonato riduceva l'acidita' del cacao e di conseguenza rendeva invece marrone molto intenso i naturali toni tendenti al rosso del cacao non trattato. Ricordiamoci che in America il cacao non veniva normalmente trattato col metodo Olandese (inventato da Van Houten) , che appunto con l'aggiunta di alcali riduceva la naturale acidita' del cacao, il che oltre a renderlo piu' scuro ne modificava anche il sapore. Negli USA questa modifica veniva considerata una forma di adulterazione alimentare e non veniva praticata dai produttori di cioccolato, che consideravano il cacao cosi' trattato un prodotto di qualita' inferiore. E' solo in tempi molto recenti che il cacao “European-Style” e' disponibile sul nostro mercato accanto a quello naturale. E' vero d'altronde che il bicarbonato era presente nelle ricette di Devil's Food , perlomeno quelle relativamente meno recenti. Ma era aggiunto per reagire con la componente acida del cacao, dell'aceto e del latticello (o della panna acida) per fornire la necessaria azione lievitante. Infatti in queste versioni non viene incluso il lievito chimico vero e proprio. Come spiegato nell'introduzione storica piu' sopra, questo metodo per far lievitare i dolci era la norma prima dell'avvento del lievito chimico. Ricette piu' recenti, come quella di Maria Howard del 1912 utilizzano invece il lievito chimico e al posto del latticello infatti richiedono il latte normale, altrimenti l'impasto finale avrebbe conservato un retrogusto acidulo. Ma in ogni caso l'uso del bicarbonato non era volto a produrre un colore rossiccio in quanto semplicemente dal punto di vista chimico questo non si poteva ottenere in tal modo. Tra l'altro, in molte ricette di Devil's Food invece del cacao era (ed e') utilizzato il Baking Chocolate, un cioccolato al 100%, ma le stesse considerazioni restano valide. Sembra chiaro, comunque, vista la differenza negli ingredienti in termini di quantita' di cacao o cioccolato usati nel Devil's Food rispetto al Red Velvet Cake che si tratta in effetti di due torte diverse.

Un'altra teoria sull'origine del Red Velvet Cake attribuisce la creazione della ricetta al Waldorf-Astoria Hotel (oggi Hilton) di New York. Tra tutte, questa e' una delle teorie che possiamo eliminare immediatamente perche', semplicemente, non e' vera. Questa e' una storia, una delle tante, tantissime leggende metropolitane (urban legend)incircolazione e che come tale esiste da parecchio tempo ed ha attraversato l'America con non poche varianti, pur mantenendo intatto il nucleo principale. Che, per la precisione, non e' di natura culinaria ma riporta le caratteristiche tipiche del classico tale of revenge , (storia di vendetta o rivalsa), una storia in cui un torto e' riparato con arguzia e il colpevole riceve la punizione che si merita. Nello specifico, la leggenda narra di una signora (proveniente ovviamente da qualche parte del Midwest, a volte dal Wisconsin, a volte dall'Iowa, o dall'Indiana...e cosi' via) che durante una visita a New York si fermo' a pranzo al Waldorf-Astoria e assaggio' la celebre torta. Complimentandosi col cameriere azzardo' a chiederne la ricetta e il cameriere con gran cortesia gliela fece avere scritta su un foglietto con gli ossequi dello chef—salvo poi aggiungere $100 al conto del pranzo come sovrapprezzo per la suddetta ricetta. Per vendetta contro l'esoso Chef dell'Hotel la signora, che aveva avuto l'impressione di dover ricevere la ricetta gratis, la diffuse con una sorta di catena di S. Antonio—in tempi recenti col mezzo più efficiente dell'email, allo scopo di danneggiare l'Hotel diffondendo il “segreto” della specialita' inquestione. Questa versione circola a partire dai tardi anni '50, tanto che la ricetta , anche chiamata $100 Cake, in altre versioni (forse tenendo conto dell'inflazione) varia dai $5, ai $250, ai $300 fino ai $1000. La stessa storia circola anche da piu' o meno lo stesso numero di anni in riferimento ad una ricetta di fudge, di Chocolate Fudge Cake e di Chocolate Chip Cookies. A volte il “colpevole” e' una nota marca di cookies (Mrs. Field's) o una catena di grande distribuzione (Neiman-Marcus).

Variano i dettagli, ma la storia e' sempre identica e non ha riscontro reale, al pari degli alligatori nelle fogne di New York, dell'autostoppista che scompare e della signora morsa da una Vedova Nera che aveva nidificato nel suo chignon. Il fatto e' che apprezziamo sempre una storia interessante (che sia vera e' irrilevante) tanto quanto apprezziamo i nostri dolci. A furia di riportarle sembrano vere, tant'è che la abbiamo anche esportata—la leggenda metropolitana del Red Velvet Cake, intendo—anche in Canada, dove assunse connotazioni locali.

Ricapitolando, sappiamo molto poco di questa torta e di dove e come origino'; sappiamo piuttosto con una certa sicurezza quale non sia la sua origine. E' un fatto comunque che questa torta sia diffusa da tempo e molto amata in Texas come in tutti gli Stati Uniti del Sud. E questo e' forse il tassello mancante: la Adams Extract, una delle prime compagnie produttrici di estratti, spezie e coloranti alimentari, basata a Gonzales, Texas, fondata nel 1888 e ancora operativa. Fred Adams, uno dei due figli del fondatore, e' colui al quale si deve la diffusione del Red Velvet Cake al di fuori del Texas fino a farlo conoscere nel resto degli Stati Uniti. Durante la Depressione, per incoraggiare l'acquisto di colorante rosso, Fred forniva la ricetta (che per inciso non includeva ne' cacao ne' cioccolato) della torta che prevedeva l'aggiunta di una buona dose di colore prodotto appunto dalla sua azienda. Fred Adams fece conoscere a tutto il Paese il Red Velvet Cake, e anche se probabilmente non sapremo mai chi invento' la ricetta iniziale, di certo possiamo concludere che sia stato lui a delinearne l'attuale versione. Forse il successo della torta sta più nel suo aspetto che nel sapore; stupisce, diverte, da' un'impressione di lusso, di eleganza—o almeno di un certo concetto di eleganza.

La moda recente delle cupcakes, monoporzioni con una proporzione ideale tra frosting, torta e sano individualismo, ha riportato alla ribalta il Red Velvet Cake. La sua associazione con la festa di S. Valentino, poi, e' anche piuttosto recente. D'altronde, a noi piacciono i colori vivaci. Ogni festa qui ha i suoi colori: rosso e verde per Natale, nero e arancione per Halloween... bianco e rosso per S. Valentino, come i tradizionali biglietti (e scatole di cioccolatini) a forma di cuore rosso contornato di pizzo bianco che Charlie Brown non riceve mai da nessuno e che tenta invano di avere il coraggio di inviare alla ragazzina coi capelli rossi in A Charlie Brown Valentine e in Be My Valentine, Charlie Brown.

A proposito di San Valentino

Questa Festa arrivo' qui negli Stati Uniti dall'Inghilterra intorno al 1840 ed attecchi' in maniera sorprendente considerando che a quel tempo la persistenza dei concetti Puritani stava ancora ostacolando la celebrazione del Natale. Dall'Inghilterra giunse anche l'idea dei biglietti (chiamati anch'essi Valentines) da inviare al proprio innamorato (reale o desiderato), idea che Esther Howland, figlia di un cartolaio, fece propria fondando la New England Valentine Company, che ebbe un successo ineguagliato. Sebbene all'inizio la festa riguardasse solo giovanotti e fanciulle in eta' da marito, presto si allargo' ad includere qualunque relazione affettiva, dai nonni ai fratellini ai genitori passando per le insegnanti e i vicini di casa. Parallelamente alle cartoline affettuose, romantiche, deliziosamente sdolcinate, se ne producevano anche altre, non propriamente gentili, in cui si riproducevano caricature che dall'impertinenza arrivavano a rasentare la crudelta', facendosi beffe delle miserie umane a livello personale e sociale, le cosiddette Vinegar Valentines, con l'acidita' dell'aceto posta in contrasto alla dolcezza dei Valentines veri e propri. Di Valentines d'epoca esistono numerose collezioni, per esempio quelle della Library of Congress e della New York Public Library.





La tradizionale filastrocca “Roses are Red, Violets are Blue.... (le rose sono rosse, le violette sono blu...) viene completata in rima in maniera piu' o meno affettuosa (od ostile) e ne esistono innumerevoli versioni con finali diversi. Attualmente, la celebrazione di questa festa, come di tutte le altre, dal Natale ad Halloween, in molte scuole purtroppo non e' piu' permessa, in nome del politically correct e della guerra all'obesita'.

di Anne da Blog 2 Food

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Django Unchained


2012, Quentin Tarantino.

Tutto quello che avreste voluto vedere in un western, ma non avete mai osato chiedere. Il Django di Quentin Tarantino, oltre ad essere un omaggio agli spaghetti western, si presenta anche come uno dei pochi decenti dopo quelli diSergio Leone. Senza contare che potrebbe costringere il regista a sfornare ancora un altro film, smentendo quindi la sua idea di non girarne altri. Date le analogie con il precedente Bastardi Senza Gloria, si profilerebbe secondo lo stesso Tarantino una trilogia sul razzismo e sulla vendetta.


Django (Jamie Foxx) è uno schiavo, liberato dal cacciatore di taglie – non che ex dentista – Dr. King Shultz (Christoph Waltz) perché conosce i volti dei membri di una banda che sta cercando. Inizia così un sodalizio che lo porterà a chiudere questa discutibile carriera aiutando il suo allievo a liberare la moglieBrunhilda (Kerry Washington); non sarà un'impresa facile, è stata infatti acquistata dallo psicopatico negriero Calvin Candie (Leonardo DiCaprio). Comincia così una sequenza ininterrotta di colpi di scena che porterà, in un crescendo di sadismo e violenza, alla conclusione finale.


Inutile dirlo, quella faccia d'angelo di DiCaprio continua a sorprenderci; il ruolo del cattivo gli calza a pennello. Ma più di tutti è Waltz che in questo film regna sovrano. Dà un contributo alla sceneggiatura coi miti germanici; dà libero sfogo al suo amore per la forma del linguaggio (stiamo parlando di un poliglotta che conosce alla perfezione numerose lingue) e per certi rituali; splendida per esempio la scena in cui prepara due boccali di birra in un salloon. Il personaggio di Shultz non fa altro che usare a proprio vantaggio lo stesso sistema criminale che sostiene la schiavitù dei neri negli stati del Sud; ammalia, anzi, ipnotizza col suo linguaggio forbito, per poi freddarti in pochi attimi con la pistola o col fucile. Da un lato è uno spietato cacciatore di taglie che guadagna per uccidere, dall'altra aiuta quando ne ha l'occasione gli schiavi a liberarsi. Un'altra figura interessante è quella di Stephen (Samuel L. Jackson) vecchio schiavo che ama il suo padrone, Candie, venendone ricambiato, tanto che può permettersi di apostrofarlo e di dare ordini al resto della servitù – bianchi compresi. Il personaggio rispecchia una tipologia di persone che si trova sempre in qualsiasi tipo di società ed epoca: Lo schiavo felice. Quando Stephen racconta a Django di come vivono gli schiavi nei campi di lavoro, dove si spaccano le pietre, da un lato capiamo che il personaggio deve avervi passato la gioventù, o che per lo meno consideri il suo stato di schiavo prediletto un privilegio; dall'altro ci accorgiamo che quel monologo è anacronistico: Descrive la vita nei campi di concentramento nazisti, da quando all'internato viene assegnato un numero a quando il suo corpo viene gettato nelle fosse comuni. Nel film si può scorgere una critica profonda all'ipocrisia di un sistema ch'è capace di dimenticare le diversità solo in nome del profitto. Il negriero Candie non ha nessuna difficoltà a parlare d'affari con Django, facendolo mangiare alla sua tavola, nella misura in cui gli riconosce lo status di persona abbiente. Non stenta a mostrare la propria brutalità, ma con la stessa disinvoltura si siede a firmare un contratto regolare di vendita. Siamo sicuri che non esistano ancora oggi dei Candie o degli Stephen?

Dell'omonimo film di Sergio Corbucci conserva solo alcuni richiami, oltre il cameo di Franco Nero, o l'immagine di Django che si porta a presso la bisaccia; la scena finale fa riferimento ad un celebre errore del film di Corbucci, dove il personaggio spara sette colpi, quando la sua pistola poteva spararne solamente sei. Simpatica la scena in cui il personaggio di Nero (Amerigo Vassepi, negriero ospite di Candie) afferma di sapere bene come si pronunci "Django". In realtà il film è un sapiente assemblaggio di scene e cliché tipici del cinema western e di vecchie glorie pulp dello stesso regista; si va da Kill Bill – che già di per sé è contaminato da numerosi elementi del genere – a Pulp Fiction, specialmente per quanto riguarda le digressioni grottesche e a tratti demenziali. Impagabile la scena degli incappucciati del Ku Klux Klan che litigano perché i buchi nei loro cappucci sono fatti male e non permettono loro di vederci bene. Non mancano gli elementi tipici della exploitation, che fanno parte della valigia di Tarantino: Corpi frustati, strumenti di tortura, marchi a fuoco, eccetera.

Sugli omaggi ai classici si potrebbe scrivere un articolo a parte; ci limitiamo a menzionarne due: Il vecchio Stephen che urla alla fine del film «figlio di una grandissima putta... » è un richiamo a Il Buono, il Brutto e il Cattivo, di Leone; quando Shultz e Django estraggono una pistola dalla manica, il richiamo è aTaxi Driver, di Martin Scorsese. Abbiamo citato il cameo di Franco Nero, inutile dire che ne farà uno anche lo stesso Tarantino; affianco a lui, nella scena in cui Django li convince di un piano per incassare una taglia, possiamo riconoscere Russ Tamblyn, il Dr. Jacoby di Twin Peaks. Il tipo che osserva sorpreso Django a cavallo invece è Ted Neely, il Gesù di Jesus Christ Superstar.

La fotografia di Robert Richardson è stata realizzata con la tecnica della lente anamorfica, usata per l'ultima volta nel film La Conquista del West, di John Ford; unita alla colonna sonora (un misto di musiche inedite e di classici come la mitica sigla di Lo chiamavano Trinità) ci permette di vivere delle scene che sono un ibrido perfetto tra il pulp più cinico ed il western all'italiana. Questa pellicola, fin'ora la più lunga realizzata dal regista, è notevolmente superiore al precedente Bastardi Senza Gloria; oltre ad essere più credibile, da al western qualcosa che gli è sempre mancato: un messaggio sociale e politico, in grado di farci riflettere sulle contraddizioni che viviamo tutt'oggi.

Voto: 5 stelle.



Django Unchained





Finalmente anche io ho visto Django. Capita di tralasciare qualche film, ma questo l'ho volutamente rimandato perché si era creato un vortice modaiolo che mi faceva prurito alla pelle per cui ho deciso di vederlo quando le acque si fossero calmate. Così finalmente ieri l'ho visto ed è stato come ritrovare un amico: il buon vecchio Quentin nella sua forma più brillante! 160 minuti di puro divertimento per gli occhi, per la mente, per le orecchie.
La storia è meravigliosamente perfetta, di quelle che piacciono a me tra amori, amicizia e vendetta. Gli attori sono magistrali e in questo si contraddistingue Christoph Waltz (mi sa che deve vincere l'Oscar!) per la sua gigioneria. I dialoghi mirati, originali e spassosi.

Se in Bastardi senza gloria aveva analizzato l'odio tra nazisti ed ebrei, ora porta in scena quello tra bianchi e neri e lo fa sempre nel suo modo più consueto tra morti, uccisioni, sangue e violenza. Ma non solo questo perché Django porta avanti anche il tema dell'amicizia, grazie all'incontro col Dottor Schultz e dell'amore per la propria donna. Un western a tutti gli effetti dunque per tutto ciò ma anche per certe inquadrature che ricordano senza indugio i film di Sergio Leone e le uscite dai saloon di Clint Eastwood. E la musica poi. Perfetta in ogni scena, per me essenziale in questo film maturo e consapevole. Tarantino sa fare cinema e si diverte a farlo perché oltre a far divertire noi, si percepisce la sua compiacenza. E a noi va benissimo.

Django è un nero cazzuto, intelligente e dallo sguardo gelido che in compagnia del Dottor Schulz dalla lingua sciolta e forbita cercherà di riportare ordine e vendetta. Di Caprio che interpreta Calvin Candie, un ricco e crudele latifondista del Mississipi è bravissimo e perfetto nel ruolo, ma non mi ha colpito particolarmente.
A questo punto non capisco chi ha criticato questo film per eccessiva violenza (mi hanno detto che qualcuno è andato via dal cinema perché non ce la faceva più! WTF?). Non mi pare che ad oggi Tarantino abbia girato Orgoglio e Pregiudizio (nulla togliendo al film che amo) e poi non vedo questo eccesso di violenza, a parte la scena canina dove in fondo poi non si vede molto. Il cinema di Tarantino è pulp e splatter e come tale deve contenerne degli elementi. E a noi piace così.
Non so come andranno stanotte le cose durante la Notte degli Oscar e non posso neanche esprimermi avendo visto ad oggi solo poco più di metà pellicole in concorso. So solo che di questa metà io tiferò Django Unchained di Quentin Tarantino. Perché adesso Django è Senza Catene.


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